mercoledì 16 agosto 2017

Garbatella metrò.










L’arsura era alta, e il suono delle cicale costante come le lamentele della sora Maria che gestiva il BarGarb con l'aiuto di Lin Gin sulla circonvallazione Ostiense, a cinquanta metri e poi tutto a sinistra per metro Garbatella. Era una mattina di luglio, e il caldo traboccava anche dai condizionatori della Mitsubishi.
“Annarì, cosa? Ma si sapeva! Quello è un pezzo grosso della Fao, se la ingroppava da tempo!” disse l’uomo.
Era basso, indossava un bermuda grigio e una camicia a mezze maniche, di cotone scadente, e avrebbe toccato a breve il sessantaseiesimo anno di età.
“Come dici? Angioletto? Lassamo perde’.  Mi ha svegliato alle 6.00, già non avevo dormito per il caldo e sai che me voleva di’? Che aveva superato il livello 3 di Assassin Creed, un gioco alla play station!”
Parlava al telefono, con voce rotta dalle rotture della vita quotidiana, seduto fuori dal Bar della sora Maria mentre sulla circonvallazione il traffico procedeva in maniera regolare.
“Quello me sta a ammazzà , nun je la faccio più.  So’ diventato suo prigioniero! Tu te ne sei andata in montagna! E te sei liberata!”
Frattanto il suo cappellino di paglia si abbassava sul viso smunto e mal rasato, coprendogli la fronte, ma non l’occhio sinistro che pesantemente tendeva allo strabismo.
“’Sti  quattro giorni che me rimangono, li vojo vive’ come Dio comanna, in pratica, Annarì, senza rotture di cazzo. A settembre, con questo dobbiamo fa’ qualcosa! Eccolo, sta a arriva’. Ti lascio, nun me vojo fa vede’ (vedere)!”
E repentinamente nascose il telefono nella tasca destra del suo bermuda.

Angioletto era un ragazzo alto come un palo della luce e largo come una porta di calcio, aveva 17 anni, ma ne dimostrava almeno 25. Vestiva un completo dei Golden State Warriors, e portava a tracolla un marsupio nero della Zeven. Si sedette, avvolto da un sudore pregnante.
“A papà, che te sei magnato?” disse l’Angioletto.
“Un cornetto e un succo.”
“‘Mo chiamo er cinese e je dico de portamme du’ maritozzi (dolce romano), con cioccolata bianca e nera. Un succo de frutta e un cappuccino.”
“Ammazza… Me cojoni… nun te li fa’ porta’, Angiole".
“A papà, c’ho ‘na fame”.
C’erano tre tavolini e nove sedie, e Lin Gin, cinese della città di Shengen, girava per i tavoli, arrecando un servizio cortese e preciso agli avventori, mentre la sora Maria serviva al bancone.
“Ahó, Gin tonic! Vieni qua e portame un po’ de cose!”
“Ti avere detto che mio nome non è Gin Tonic, è Lin Gin” con un accento in cui tutte le “r” si trasformavano in l
“Ahó, sempre du’ maritozzi me devi portà ! Con un succo, e un cappuccino, con molto cacao” e nel momento in cui lo diceva, improvvisava, da seduto, un balletto rap.
E Lin Gin si allontanava, borbottando qualcosa nella sua lingua nativa.
“A papà, hai visto mamma se ne è annata in montagna! Quella c’ha lasciato, te lo dice l’Angioletto”.
“Doveva annà  dalla sorella!” disse il padre.
 “A papà, se ne dovemo annà (andare) ad Anzio. Quattro giorni, pensione completa cucina mediterranea, il cuoco è di Sorrento”.
Il padre lo ascoltava in silenzio, muovendo in continuazione l’occhio sinistro che tendeva sempre di più allo strabismo acuto.
“A papà, se magna  che è ‘na  favola! …me devi solo da’ ‘a carta de credito!”
All’improvviso sulla circonvallazione, proprio adiacente al bar, si arrestò un Suv nero, da cui uscirono due tipi. Alti, calvi, e parecchio incazzati.
“Ti chiami Angioletto” gli disse il più alto, mentre il basso stava leggermente indietro e in silenzio.
Con un sì convinto gli rispose Angioletto.
“Bravo” gli rispose il tipo e gli diede un destro a mano aperta.
E il botto fece girare, di scatto, i cinque vecchietti che erano seduti fuori dal bar, mentre parlavano di Naiggolan e del suo nuovo contratto. E il viso di Angioletto ruotò, in senso orario, di 180 gradi.
“E mo’, vieni con noi” disse il tipo.
“E perché?”
“Perché, sei uno stronzo.”
E con la mano destra, sempre aperta, gli fece saltare l’altra gota, quella sinistra.
“E questo chi è?”
“È mi’ padre”.
“Viene anche lui”.

Erano in uno stanzino, seminterrato, di quaranta metri quadri, e da una piccola finestrina entrava un filo di luce, molto fioco. Si ascoltava Julio Iglesias, “Baillando.”
“E allora, voi parla’? (parlare)”
Il volto di Angioletto era tumefatto
“Ma che te devo dì?” disse Angioletto.
“Io ‘sta Arianna nun la conosco. Nun l’ho mai vista!”
Il più alto aveva preso in cura Angioletto, mentre il più basso, a buon ritmo, e con grande perizia, ballava, e cantava il pezzo di Iglesias, dopo aver preparato un buon caffè.
“Come nun la conosci, che la facevi batte’ alle Terme di Caracalla! E lo sai chi è Arianna? È la figlia der Ghepardo, e Ghepardo è parecchio incazzato, e dice che ‘sta (questa) situazione si deve risolve’  solo cor sangue. E cor sangue tuo!”
“A papà, li vedi questi?”
“Angioletto, tieni duro” gli rispose il padre.
“Brutto sacco de merda” gli disse il tipo, e nel mentre gli mollava un dritto sul viso, nello stesso tempo, lentamente, la sedia si ribaltava e l’Angioletto, con un movimento strano delle natiche, sfondava il pantalone, e si schiantava con il viso a terra e con le chiappe, senza mutande, proprio di fronte il volto del suo persecutore.
“Che schifo!” gridò il suo aguzzino.
“Me so’ proprio scocciato, prendiamo ‘na tenaglia,  gli tolgo le unghie del piede, una a una.”
“No ‘a tenaglia, no!” gridava l’Angioletto.
E mentre si allontanava per prendere la tenaglia, gli diceva: “E quanto ci guadagnavi?”
“Ma che stai a dì?” rispose l’Angioletto.
“Ma come che sto a dì, ti vantavi anche di avere le mignotte più fresche di Roma sud! E mo’ che fai, te rinneghi tutto? Ma che omo(uomo) sei?”
“Ma quali mignotte, nun l’ho mai viste”.
Il padre sorseggiava un caffe, e di tanto in tanto diceva: “Ah regà, non fategli troppo male” e Despacito copriva le urla e i pianti di Angioletto.
Si sentì lo squillo del cellulare, il ballerino abbassò il volume dell’impianto stereo, e rispose.
“L’avete preso? E ‘sti due? Nun so’ loro? Ho capito...”
“Abbiamo sbagliato. Somigliava al panzone. Ma nun so’ loro.”
“L’ho sempre pensato, anvedi che viso da coglione si ritrova  Angioletto” disse il suo aguzzino.
“Adesso se ne dovemo anna’, perché er Ghepardo dice che ce dobbiamo vede’ tra un quarto d’ora a Laurentina - disse il ballerino - e questi li lasciamo qua?”
“Tanto mica parlano! Ahó, le vedete ‘ste facce? Be, mo’ ve le dovete dimentica’. È chiaro?” disse l’aguzzino.
“E chi v’ha visto mai” rispose il padre dell’Angioletto.





Dopo tre giorni e con qualche centinaio di lividi mancanti, l’Angioletto e il padre accompagnati da due trolley di color bianco si dirigevano verso metro Garbatella per prendere il treno in direzione Anzio.
Arrivarono a Marechiaro verso le 12. Il sole era alto e picchiava forte. I due si avviarono per la discesa che era coperta dall’ombra dei giganteschi pini marini.
Ormai, erano trascorse ore e la canicola diventava sempre più asfissiante.
“A papà, vieni che lo troviamo!”
“Angiolè, ma che voi trova’! Stamo a gira’ da tre ore!”
Erano seduti su un masso di cemento, e di fronte avevano il mare di Anzio, avvolto dalla bonaccia di fine Luglio.
“Te sei fatto frega, nun ce sta nessuna cucina mediterranea... A via dei Gerani 345 c’è soltanto ‘na mignotta nera, e un tipo che se la vuole ingroppa.Sto Hotel Mediterraneo, nemmeno l’ombra” e dopo aver detto ciò, si alzò e si diresse verso la stazione ferroviaria.
“Angiole’, sei proprio ‘na’marezza! Vedi ‘n’attimo a che ora passa il prossimo treno pe’ Roma.”
Anche l’Angioletto si alzò e si mise sulla scia del padre.
“E se facciamo in tempo, ce magnamo ‘na carbonara dar Sor Remo” - disse il padre - “almeno sarvamo quarcosa.”
I due si avviarono  e nel frattempo Angioletto continuava a farfugliare  altre  vaccate.


Aniceto Fiorillo

Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.




Autore di Kilometro zero
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 e dei suddetti Racconti disaccordati.







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