domenica 11 novembre 2018

Il pilota e la comunità belga










Il pilota e la comunità belga


"I brasiliani belgi" erano circa diecimila, suddivisi tra Bruxelles, Namur ed Anversa; erano meno dei brasiliani d’Inghilterra ma sempre di più dei brasiliani d’Italia; anche loro avevano capito che in Italia tirava una brutta aria. Vi dirò di più, molti dei "brasiliani belgi" avevano avuto come prima esperienza europea proprio l’Italia ma subito avevano fatto le valigie per il più ospitale Belgio. In terra belga ebbi la fortuna di conoscere approfonditamente la comunità carioca. Analizzando la loro tipologia di emigrazione, capivi che come altri migravano per avere una vita migliore. La loro migrazione aveva caratteri temporanei, durava quattro, cinque anni e poi ritornavano in Sudamerica. I carioca avevano un amore smisurato per la propria terra e soffrivano di una forte saudade che li costringeva a tornare. Parlandoci, mi ero reso conto che ognuno aveva una piccola fattoria da gestire in Brasile, il sogno era comprare quante più vacche fosse possibile, di costruire una fazenda e di diventare fazenderi. L’idea non era malvagia, anzi aveva la sua logica: andare in Brasile a crescere vacche. Carlitos, che in Belgio lavorava come muratore a cottimo, ne possedeva circa trenta e alla cinquantesima vacca avrebbe fatto le valigie e sarebbe ritornato a casa con sua moglie e i suoi due figli; il mio parrucchiere gay, Sosinho, ne aveva soltanto diciotto, ed era geloso degli altri che ne avevano molte di più. Il migliore di tutti era il Pilota: il Pilota era al di sopra di tutti "i brasiliani belgi" che avessi conosciuto. Il Pilota rappresentava un sogno, anzi, per meglio dire, il Pilota era il sogno. Si chiamava Gomes do Santos, quarantasei anni, proprietario terriero in Brasile e titolare di un’impresa di pulizie in Belgio, denominato il Pilota per il suo sogno: diventare pilota d’aeroplani. Conobbi il Pilota a una tipica festa brasiliana a base di carne, fagioli, riso e jupiler (birra). Quando lo vidi, subito risi: il Pilota, alto circa un metro e sessanta con una leggera pancetta da imprenditore, era fidanzato con una ragazza che minimo in altezza gli dava quindici centimetri, aggiungendo i tacchi i centimetri arrivavano a venticinque. La sua donna si chiamava Maria, italiana, laureata in Economia, lavorava come manager alla Canon, bellissima ragazza e personalmente mi chiedevo che cazzo ci avesse trovato nel Pilota. Su Gomes do Santos tutto si poteva dire tranne che fosse bello, forse aveva il fascino del quarantenne. Il Pilota era un irregolare, sans papier. La sua azienda contava la bellezza di quindici dipendenti, molti dei quali erano brasiliani, altri portoghesi, alcuni cileni. Il suo business si rivolgeva a piccole, medie ditte, e a complessi abitativi; non so se fosse davvero laureato in legge come diceva fieramente, ma di una cosa era certo: oltre a essere un sognatore era anche una volpe. Soffriva di uno sdoppiamento di personalità, di giorno materialista, di notte sognatore. Si immaginava pilota di aerei, di un suo aereo privato, e di volare per il cielo del Brasile accompagnato dalla bandiera brasiliana e da Maria, che quando ascoltava il Pilota dimenarsi tra i suoi sogni quasi piangeva. Il modo per conoscere i carioca erano le feste che erano una delle cose migliori che il Belgio potesse offrirmi, in primis erano “free”, e in più era assicurato cibo e divertimento. Alle serate erano presenti tutti, e chi aveva i figli li portava con sé, e i bambini erano costretti a far notte e mattino. Ricordo che il primo party, a cui partecipai, si svolse presso la casa del Carlitos, ci andai in compagnia di Josè e di mio fratello. L’abitazione si trovava nei pressi dell’Arco del Cinquantenario, una villetta di due piani con giardino retrostante. Il Carlitos si trattava bene, del resto essere muratore in Belgio rendeva. A volte pensavo che, se avessi avuto il dono di rinascere, mi sarei scelto un lavoro pratico: l’ elettricista, l’ idraulico, quei lavori che gratificano, ma gli eventi ti portano a percorrere altre strade. Ritornando al muratore a cottimo, oltre ad avere una casa con due piani aveva anche una moglie e due figli: Gustavo e Antoninho. I suoi bambini, di cinque e sette anni, frequentavano regolarmente la scuola elementare, parlavano francese tres bien e il processo di integrazione filava liscio come l’olio anche se soffrivano come dei cani a stare in Belgio. I carioca potevano essere accomunati un po’ ai napoletani, pensavano solo al divertimento; il lavoro e le preoccupazioni abitavano lontano. Di politica, non sapevano nulla. Una volta si parlava dell’11 settembre quando d’un tratto arrivò il Carlitos che, sentendo 11 settembre, fece riferimento alla data di nascita di Ronaldo. Di Bin Laden e del terrorismo poco ne capivano, vivevano in una sorta di beata noncuranza di come il mondo stesse andando. Erano così. Quando mi parlavano delle loro famiglie non vi dico i disastri: in media, una ragazza brasiliana di ventitré anni alle spalle aveva già un matrimonio, un divorzio e un bambino da sfamare in Sudamerica. Se la mia povera nonna li avesse potuti ascoltare, di sicuro avrebbe esclamato:o signore mio, mai peggio! Di disastri ce n’erano svariati. Tanto per citarne uno, vi era il disastro del Belardo. Il Belardo, muratore, lavorava con Carlitos, aveva ventisei anni, e un fisico simile al portiere del Milan Nelson Dida, longilineo e magro; lo chiamavano Mister 48, perchè era il numero di vacche che possedeva. Era stato sposato e divorziato, aveva due figli in Brasile e una nuova fidanzata in Belgio, Lima.

Intanto la festa continuava e ben presto capii che quella sera sarebbe stata una sera di grande conquiste. Dopo una settimana di lavoro al call center dove ti contavano anche i secondi per urinare, volevo solo distrarmi con delle donne brasiliane. Riuscii ad avvinghiarmi a una ragazza bionda, mai vista prima. Mi ricordo che parlammo poco, anche perché masticavo modicamente il portoghese: incominciai a baciarle il collo e finii alle labbra, tra me pensavo anche questa sera mi sono guadagnato il pane. Intanto mi accorgevo che il tasso etilico delle persone non accennava a diminuire e pure le grida e la musica aumentavano in maniera esponenziale. Preso dalla bionda, ero nel mio paradiso artificiale e nel momento in cui la confusione era al massimo si sentì il suono del campanello e di punto in bianco il silenzio si impadronì della casa. Carlitos si avvicinò a mio fratello e lo pregò di andare ad aprire. Io, mio fratello, Josè e Maria eravamo gli unici regolari della festa, gli altri, i brasiliani, tutti irregolari. Andammo, aprimmo e ci trovammo di fronte due agenti in divisa, di età compresa tra i venti e i ventiquattro anni. Ci presentammo. Gli agenti ci invitarono a favorire i documenti, "Italiani" disse uno dei due. Quando una persona ti dice "italiano" non sai mai se lo dice in modo ammirato o in modo schifato, nel nostro caso era in modo ammirato. Il più piccolo dei due si chiamava Michele, era figlio di emigrati italiani in Belgio. Ci disse che era calabrese, discutemmo dell’Italia e del Napoli di Maradona. Entrammo subito in sintonia. Era fatta, avevamo evitato il peggio che significava perquisizione dell’appartamento con relativa espulsione del proprietario, ossia del muratore a cottimo che avrebbe finito di collezionare vacche.
Dopo aver salutato gli agenti, tornammo dentro. Trovammo solo desolazione. Dei brasiliani nemmeno l’ombra. All’improvviso, mio fratello udì la voce di Carlitos: "
Ancimo, Ancimo, Ancimo". Stava per "Antimo", il nome del mio brother, i brasiliani avevano un problema con la t. Il muratore aveva scavalcato il muro di cinta della sua abitazione per paura di essere rispedito in Brasile e gli altri avevano seguito l’esempio. Invece, il Belardo si era nascosto al piano superiore, la ragazza bionda, dileguata, non la vidi più. La moglie del Carlitos aveva trovato rifugio su un albero di limone mentre Maria era andata alla ricerca del Pilota. Si trovarono e si abbracciarono.



Maria e il pilota.

La storia del Pilota e di Maria era degna di una soap opera sudamericana, non mancava niente: l’ amore, la separazione, i litigi e le riappacificazioni. Ciò andava avanti da due anni, più o meno. E poi c’era la madre di Maria. La prima volta che la mamma di Maria vide il Pilota, mise sottosopra l' intera regione di Bruxelles. "Hai perso la testa - ripeteva alla figlia - non sai cosa fai, un brasiliano! Quelli sono dei mascalzoni, e poi cosa ti ritrovi? E se fai un bambino? E se quello decide di andarsene in Brasile, tu cosa fai?"
Maria accusava il colpo
e con la testa china diceva: "Hai ragione, è una ragazzo che non fa per me, domani lo lascio".
Lei lo lasciava ma il giorno seguente erano di nuovo insieme.
Il Pilota era un bravissimo ragazzo, ma con enormi difetti. Un po’ duro di comprendonio, un tipico brasiliano con tutti i
pros and cons della situazione: vita sregolata, orari che non esistevano, voglia di divertirsi. Mentre la madre, ovviamente, per Maria voleva soltanto il meglio come qualsiasi madre. Immaginava la figlia sposata con un manager, uno di quelli che ha un reddito considerevole, una casa in montagna e all’occorrenza anche al mare. E invece, chi si ritrovava come genero? Gomes do Santos . Un brasiliano, un clandestino che, a parer suo, voleva sposare la figlia solo per sistemare i propri inghippi burocratici, ottenere la cittadinanza e i relativi benefici.
Arrivò il giorno in cui Maria ebbe la brillantissima idea di portare in Italia, a Natale, in un piccolo paese del Sud, il Pilota. Arrivarono il ventuno di dicembre, sarebbero dovuti ripartire il tre gennaio. Voli Virgin express, compagnia low cost. Il piano fu rispettato solo da Maria, il Pilota abbandonò l’Italia molto prima, a causa di una futile discussione con Maria. La discussione fu soltanto un pretesto. Gomes do Santos era ormai stufo di Maria, dei genitori di Maria, dei fratelli di Maria, e aggiungerei anche del paese di Maria. Respirava una brutta aria, l’aria di chi sa di non essere ben accetto. Così, dopo soli tre giorni di permanenza aveva fatto le valigie ed era tornato a Bruxelles. Dopo la parentesi italiana, Gomes do Santos e Maria avevano deciso che per un periodo di tempo sarebbe stato meglio non vedersi, ognuno per la sua strada. Maria con il suo lavoro da manager, il Pilota con il suo lavoro da imprenditore. Nelle mattine invernali, vedevi arrivare il Pilota al Caffè Belga dall’alto del suo metro e sessanta, con sé aveva sempre una penna e una piccola valigetta. Era un tipo schietto, uno che dava del tu a chiunque, ordinava il suo caffè e ripartiva. Gli affari del Pilota, a sentire gli altri, andavano a gonfie vele. Addirittura in giro si diceva che con la sua impresa di pulizie oltre ad aver conquistato Bruxelles, si accingeva a invadere la città di Namur. Il business si era allargato e con esso, sia il numero degli introiti che quello dei dipendenti. Ora l’azienda ne contava ventisette. Come altre mattine, anche quella mattina il Pilota si recava a lavoro. Prese il solito caffè, salutò gli amici, comprò il giornale, il Globo, all’edicola più vicina e incominciò a sfogliarlo.
Arrivò nei pressi del pulmino Fiat, accese il motore, e ripartì per il suo consueto giro. Doveva prelevare otto operai e portarli allo stabile di Namur. Il punto di incontro per i primi quattro operai era fissato a Gare du Midi, il Pilota arrivò con dieci minuti d’anticipo, così, per uccidere il tempo, riprese la lettura del Globo.
Dopo dodici minuti arrivarono le prime operaie e il Pilota fece cenno alle donne di muoversi perché erano in ritardo. Gomes do Santos ripose via il Globo e riaccese il motore per prendere gli altri lavoratori. Il secondo punto di incontro, quello, per gli operai portoghesi, era alla stazione centrale. Aprì la porta scorrevole del furgoncino e li fece entrare. Quella mattina nel furgoncino bianco Fiat erano in otto. Lui, più sei donne, irregolari, e un ragazzo, anche lui clandestino. Namur-Bruxelles erano circa trenta chilometri che il pilota percorreva in cinquanta minuti parlando con i suoi operai. Arrivarono alle 8.45, scesero dal bus e i salariati iniziarono a sgobbare. Gomes do Santos si fermò a parlottare con l’amministratore che gli propose altri stabili da pulire. I prezzi del Pilota erano più che concorrenziali tanto il Pilota mica doveva pagare le tasse! La conversazione si concluse con una stretta di mano e due sorrisi smaglianti. Pensavano ai numerosi affari che avrebbero potuto realizzare. L’amministratore si mise alla guida della sua autovettura e ripartì per nuovi lidi, Gomes do Santos salì sul furgone, accese lo stereo e prese da un cassetto la merenda preparata il giorno prima. Si sistemò in posizione comoda. Alle 10.45 arrivarono i poliziotti belgi che misero in pausa forzata ogni lavoratore. Sequestrarono tutto, partirono dalle cose materiali e finirono con le emozioni. Quella mattina, la polizia distrusse il sogno del Pilota. Gli otto salariati e Gomes do Santos furono condotti in caserma. E così finì la permanenza del Pilota in Belgio.


Aniceto Fiorillo



Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.



Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.

martedì 11 settembre 2018

Marlene







L’autunno incominciava a sentirsi, le strade erano ricoperte da un manto di fogliame e bagnate da una pioggerellina fine, che, sebbene fastidiosa, non impediva di uscire. Erano due mesi che mi ero trasferito a Roma, abitavo tra la stazione Termini e il quartiere Monti. Alloggiavo in una pensione che si chiamava Marlene. Non era male, in camera avevo anche una piccola tv e da sotto si alzavano i profumi delle cucine dei pakistani che abitavano ai seminterrati delle vie vicine.  
Dalle mura sottili  della mia stanza  ascoltavo la voce accorata di una ragazza che verso le otto di sera ripeteva dei copioni, o almeno qualcosa che somigliasse a ciò. 
Una mattina ci incontrammo fuori  dalle camere, le dissi: “Cosa provi?”

Scusa se ti disturbo -  mi disse -  proviamo il Re Lear di Shakespeare, tra tre giorni abbiamo la prima” . 

Avvolse il capo in un foulard rosso, coprì gli occhi con dei grandi occhiali da sole e si allontanò.  Si chiamava Milù ed era veneta, di un piccolo paesino in provincia di Padova.  Io avevo trentadue anni e sognavo di diventare uno scrittore, tirando avanti con delle supplenze a scuola. Mi procurai il biglietto della prima e la andai a vedere. Ci conoscemmo, e poi facemmo l’amore a Marlene, e i nostri corpi intrecciati alle lenzuola allontanarono il freddo.  Talvolta andavo ad assistere alle prove, trascorrevo ore in platea, lei recitava e io la osservavo, avrei voluto averla solo per me, io e lei, e poi, scherzavamo sul teatro e sul viso quadrato della portiera di Marlene e ridevamo tanto; e dal giardino degli Aranci osservavamo Roma e i gabbiani che volavano nel cielo plumbeo, sperando nei nostri sogni.  E poi, le lunghe passeggiate autunnali sulla spiaggia di Lavinio, le corse, l’amore e i venti che muovevano gli alberi, la pioggia e il rifugio nella pineta, ascoltando il suono tamburellante del nubrifagio che accompagnava i nostri abbracci. L’autunno scomparve, venne il Natale e Milù partì per una tournée teatrale e non la vidi più; a volte, fermandomi, penso alla sua dolcezza e a Marlene.




Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.
Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.
                                                                            

martedì 26 giugno 2018

Ramid







Conobbi Ramid in una tipica giornata belga, dove il grigio del cielo non avvolge solo
l’ambiente in cui viviamo, ma anche l’interno delle persone, il loro animo, e così trasforma le loro abitudini, i loro modi di essere. Anche quella giornata come altre mi ero recato al Caffè Belga; presi una cioccolata calda, e scambiai alcune chiacchiere con degli italiani. Erano le 10.30, quando al mio tavolo si sedettero Josè e Ramid. Ramid era con un piccolo bambino, di carnagione mulatta, sui cinque anni che aveva con sé un pallone. Josè ci presentò. Ramid era un somalo. Lui, come altri, era un illegale. Aveva iniziato a lavorare come cameriere, col tempo era riuscito a diventare cuoco presso un locale eritreo, sito a Avenue Plasky 181. Ramid, di corporatura gracile,  si presentò parlando in italiano e mi disse: "Ciao come stai?",  gli risposi con un sorriso.  Si trovava in Belgio da quattro anni: lavoro, lavoro, e tanta sofferenza lo avevano accompagnato. Il Belgio fu il punto di arrivo di un viaggio tortuoso che vide come tappe prima l’Italia e poi la Francia. Arrivò in Sicilia con una di quelle carrette del mare proveniente dalla Libia, raggiunse la città di Ancona in treno, durante il tragitto incontrò dei controllori ferroviari che furono alquanto benevoli con lui non chiamarono né la polizia né gli chiesero chi fosse, lo trattarono come una qualsiasi ombra africana. Una volta arrivato ad Ancona, Ramid si mise in contatto con alcuni trafficanti iraniani che gli promisero di farlo arrivare in Francia, nascosto in un camion merce che trasportava cocomeri. L’obiettivo era raggiungere la Francia e stabilirsi a Parigi.  Raggiunta la capitale francese avrebbe chiesto l’asilo politico come rifugiato. Tutti conoscevano la situazione politica somala. Lui era convinto, il governo francese avrebbe accettato la sua richiesta e in seguito avrebbe portato la sua famiglia. Dopo aver pagato il viaggio ai trafficanti iraniani, partì per la Francia in compagnia di un ragazzo iraniano, Saris che di anni ne aveva 19 ,  caratteri mediorientali, capelli corti e sguardo vivo, intelligente. La sua destinazione era Bordeaux ad aspettarlo vi era il fratello maggiore. Partirono di notte, imboccarono
l’autostrada, la prima fermata sarebbe stata Genova. Saris e Ramid viaggiarono in condizione non pietose, erano nascosti in un doppio strato in cui erano soliti viaggiare gli altri clandestini. Anche i conducenti furono molto gentili, entrambi italiani. Trascorsero un’intera settimana mangiando cocomeri e bevendo acqua minerale. Ebbero l’opportunità di conoscersi e di scambiarsi reciproche informazioni sulle loro destinazione e futuri progetti. Arrivati a Genova di mattina, i camionisti si fermarono per una breve pausa, mangiarono e si rilassarono mentre Ramid e Saris chiusi nel camion si cibavano di cocomeri rossi. Per i bisogni corporei usavano  un piccolo foro che funzionava  da bagno, e i loro bisogni corporali coprirono le strade per la disperazione degli operatori ecologici delle varie regioni italiane. Oramai mancava poco per arrivare al confine con la Francia, i due ce la avrebbero fatta. La notte dello stesso giorno il camion raggiunse la città di Ventimiglia.L’ indomani arrivarono a Lione che fu l’ultima fermata. I due scesero dal camion e si salutarono. Ramid proseguì per Parigi. Saris per Bordeaux. Il somalo percorse la tratta Lyone-Parigi in treno, chiuso nel bagno di servizio. Arrivò a Parigi, di sera, senza conoscere nessuno, arrivò come o peggio di un cane randagio bastonato. Senza un soldo in tasca, Ramid si aggirava per le strade parigine cercando ti trovare un qualsiasi lavoro. I luoghi frequentati erano associazioni caritatevoli che gli garantivano due pasti caldi al giorno e i parchi. I parchi parigini, di notte, diventavano delle vere e proprie colonie abitate da emigrati di ogni nazionalità: curdi, armeni, congolesi, afgani, iraniani. Si attrezzavano e costruivano delle vere tendopoli fatte di cartoni e di altri materiali arrabattati in giro. Erano centinaia che vagavano , anime in penitenza, i loro colori ormai erano un tutt’ uno con quelli delle notte parigina. In questa sorta di tendopoli, Ramid conobbe le prime persone. Cercò di capire quale fosse l’iter da seguire per presentare la domanda come rifugiato politico, alcuni iraniani gli dissero di essere cauto e di non farsi facili illusioni poiché la politica nei confronti degli emigrati era diventata abbastanza dura. I due iraniani si erano visti respingere la domanda perché non sussistevano le condizioni per essere considerati dei rifugiati. Ramid presentò la domanda come rifugiato, sarebbero trascorsi alcuni mesi prima di venire a conoscenza dell’esito. I mesi trascorsero in fretta tra piccoli lavoretti come muratore e notti in bianco nei parchi, a sognare e pensare alla sua famiglia in Africa. Ebbe la prima risposta che fu negativa. Non si scoraggiò e andò avanti per la sua strada. Degli afgani gli consigliarono di non perdere tempo in Francia e di porsi come obiettivo l’Inghilterra o il Belgio. Il Belgio e l’Inghilterra in quel periodo erano i paesi più propensi ad accettare le domande dei rifugiati, Ramid aveva due alternative, recarsi a Calais e da lì imbarcarsi per l’Inghilterra o andare in Belgio dove avrebbe potuto contare sull’appoggio di alcuni connazionali che da anni si erano stabiliti nella capitale belga. Ramid optò per la seconda opzione. Ancora una volta prese il treno e viaggiò di notte, destinazione Brussel.  Avendo messo da parte dei soldi, riuscì a comprare il biglietto e il viaggio fu tranquillo, più rilassante. I primi tempi in Belgio furono più favorevoli di quelli trascorsi in Francia, più confortevoli per lo meno aveva un tetto sotto cui stare e un lavoro da cameriere che gli permetteva di guadagnare, di condurre una vita più che dignitosa. Il problema era sempre lo stesso, riuscire ad avere lo status di rifugiato politico che gli avrebbe permesso di portare in Belgio la sua famiglia. Il problema diventava sempre più urgente, anche in Belgio la situazione si era capovolta, anche lì era diventato difficile ottenerlo. In Europa ormai prevaleva la linea di aiutare i disperati nelle loro terre e di conseguenza le autorità politiche nicchiavano nel rilasciare ogni sorta di documento che permettesse agli stranieri di creare delle radici in Europa.  Ramid decise di far partire sua moglie e suo figlio senza permessi, avrebbero seguito il suo stesso percorso: Italia e poi Belgio, e alla fine si sarebbero congiunti. 

Il somalo abitava in periferia, divideva il suo appartamento con altri emigrati, ma ancora per poco. Ramid aveva preso in affitto un appartamento in Ixselles per la sua famiglia che lo avrebbe raggiunto. La casa era da ristrutturare, ci sarebbero voluti una trentina di giorni.Il somalo non riusciva più a controllare l’emozioni,  parlava dell’arrivo del figlio e della moglie con tutti, tutti sapevano e tutti gli domandavano. Per ristrutturare casa aveva ingaggiato un operaio inglese specializzato in lavori in economia. Forse l’ingaggio di quel operaio fu dovuto più all’ impellente bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia che a reali necessità di ordine pratico. L’ appartamento era 60 metri distribuiti su un unico piano. Le stanze da letto erano due, una per la moglie e Ramid, l’altra per il piccolino, una cucina, un bagno. Il somalo con l’aiuto dell’operaio inglese aveva deciso di pitturare di giallo canarino la stanza del bambino, di rosa la loro stanza e di bianco le restanti pareti. Penso che l’inglese non abbia dimenticato quel periodo trascorso con Ramid. Fu davvero da esaurimento per lui. Ramid gli chiedeva mille cose e pretendeva dall’ inglese mille e uno risposte. Le domande erano sempre le stesse. “Inglese, secondo te, piaceranno queste lenzuola a mia moglie e questo gioco a mio figlio?” Domandava Ramid. E così che si andava avanti, comprava il consenso dell’inglese con alcune birre e un piatto di spaghetti con il pomodoro. Si lavorava fino a notte inoltrata, e spesso riattaccava al ristorante in un unico ciclo continuo da far invidia alle migliori fabbriche specializzate. Ciò non dispiaceva al somalo  che aveva trovato nell’ inglese sia un' aiuto manuale che un supporto morale. Divennero grandi amici, sgobbavano, si divertivano e uscivano quando potevano. Per lo più si riunivano al Caffè Belga dove consumavano pacchetti di sigarette e dozzine di Maes.



I clandestini arrivavano da tutti i posti, erano senegalesi, pakistani, etiopi, iraniani. Ognuno con una loro storia da raccontare. Arrivavano in Libia tra mille difficoltà, attraversando il deserto o il mare. Una volta arrivati in Libia, venivano nascosti in cantine anche per intere settimane. Si doveva aspettare il momento buono per salpare. Venivano ammassati come bestie, mangiavano pezzi di pane secco e bevevano acqua mezza salata. Arrivato il momento giusto, si partiva. Si erano imbarcati dalle coste libiche di Al Zuwara, di notte, erano diciotto su un barcone che massimo ne poteva contare otto. Aggrappati l’uno sull’altro, erano partiti. Avevano avuto in consegna una bussola, una piccola carta nautica e un bidone d’acqua, sempre mezzo salata, da 50 litri. Avevano salutato l’Africa e cercavano di abbracciare l’Italia. Per molti di loro l’Italia rappresentava un punto di transito per raggiungere il centro dell’Europa, per altri il loro obiettivo. Alcuni avevano dei parenti, delle mogli, altri nessuno, nemmeno una valigia. Per staccare il biglietto avevano dovuto sborsare 1500 euro, senza ricevere nessuna sicurezza. Mentre si allontanarono dalle coste africane, il silenzio si impadronì della barca. Gli sguardi dei diciotto disperati erano profondi, più comunicativi delle parole. I loro occhi erano rivolti al loro passato, alle coste africane, alla loro terra, partirono non sapendo se o quando sarebbero potuti ritornare. Partirono. Nella zattera, bianca e nera, a strisce, vi erano 18 persone di cui 3 bambini, 5 donne, 10 uomini. I diciotto erano di diverse nazionalità, otto erano somali, sei senegalesi, quattro ghanesi. Lo scafista era senegalese, marinaio nel suo paese, che in cambio della sua prestazione non aveva pagato il viaggio. Gli altri erano per lo più  impiegati come manovali nei settori dell’edilizia, mentre le donne lavoravano come casalinghe. La nottata e i primi tre giorni di navigazione trascorsero in relativa tranquillità. Non vi furono fatti degni di nota, se non i primi sguardi di amore tra Teris e Sara. Per alcuni giorni rimasero solo sguardi, Teris non ebbe la forza di sconfiggere la sua timidezza. Teris, 18 anni, corporatura rocciosa, sognava di diventare calciatore e di imitare il suo idolo Cannavaro. Ad aspettarlo in Italia vi era un cugino che abitava a Torino e aveva fatto fortuna con lo spaccio delle droghe leggere. Nei primi giorni italiani sarebbe stato suo ospite. Sara di anni ne aveva 21. Mora, dai lineamenti dolci. Con la morte dei genitori era rimasta sola. In Italia, Sara aveva un sorella sposata con un eritreo; la sorella, donna di servizio, il marito, muratore, abitavano a Brescia. Avevano una piccola bambina, nata da poco. Sara, nei primi tempi, si sarebbe occupata della nipote. Dopo tre giorni la fame e la stanchezza incominciarono ad aprire la porta alla disperazione; mentre i raggi del sole diventavano sempre più prepotenti e come frustate, scese dal cielo, colpivano i profughi. La bussola non dava segni di funzionamento, forse non li aveva mai dati. La benzina era terminata. Alcuni dei disperati incominciarono a consultare le carte nautiche, senza capirci nulla. Una donna, mulatta, tra i 30 e 35 anni, aveva in braccio un bambino sul  volto della signora era dipinta la paura di chi teme di essere in procinto di morire. La ragazza aveva posto sul capo del bambino un piccolo cappello per proteggerlo dal sole infernale, e di tanto in tanto gli bagnava le labbra con l’acqua salata del mare. Dalla partenza erano trascorsi quattro giorni. Il quinto stava per nascere. L’acqua era terminata, e con essa anche i viveri. I diciotto disperati, sotto le martellate di un sole inclemente, avevano perso l’orientamento. Usavano l’acqua del mare per bagnarsi sia la fronte che la bocca. Vi era un susseguirsi di voci tra i passeggeri della zattera in merito alla destinazione da seguire. Non si raggiungeva un accordo. Un ragazzo si alzò e prima di tuffarsi, disse: “Io raggiungo l’Italia a nuoto.” Di quel ragazzo non si ebbe più notizia. Tra la notte del quinto e del sesto giorno nella barca tutti erano terrorizzati. Piangevano, pregavano ed invocavano Dio. Verso le cinque del mattino videro in lontananza una piattaforma per l’estrazione del greggio. Dopo alcune ore di navigazione la raggiunsero. Erano tunisini. Gli diedero del pane, dell’acqua buona, della benzina per la barca e ripartirono. Al sesto giorno la ragazza con il bambino in braccio morì di dissenteria. Era la moglie di Ramid. Gli altri passeggeri a malincuore dovettero buttarla a mare, e a turno si occuparono del bambino, tenendolo in braccio. Il bambino era diventata l’unica fonte di gioia. Divenne il bene più prezioso, più prezioso delle loro disperate vite. Ormai dei diciotto ne erano rimasti tredici. La prima a morire fu la moglie di Ramid, dopo altre due donne e un ragazzo persero la vita. Morivano come mosche. Schiacciati, annientati.  

Il mare sempre piatto mentre il sole continuava nella sua azione distruttiva. Sulla zattera vi era solo il caos, nessuno sapeva che giorno fosse o quale fosse la loro destinazione. Gli svenimenti, le crisi, le urla erano il pane quotidiano masticato dai quindici disperati. Nello stesso tempo, il crederci accompagnava il loro viaggio.  I corpi scheletrici erano la testimonianza diretta della sofferenza a cui erano sottoposti. Tra le persone si comunicava con gli sguardi, non vi era la forza di parlare.  Il sole alto in cielo picchiava sempre di più. I quindici diventavano sempre più deboli. Durante i giorni di navigazione, nacquero delle amicizie, amicizie vere perché nate dalla sofferenza. Nacquero anche degli amori. Teris riuscì a sconfiggere la sua timidezza, e si avvicinò a Sara. I due incominciarono a scoprirsi. Entrambi somali. Lui carpentiere, lei casalinga. Entrambi in Somalia lasciavano tante delusioni. Avevano poco, ma insieme avrebbero potuto unire quel poco, e farlo diventare più grande. Arrivò la notte e con essa il vento, Taris coprì le spalle di Sara con la sua piccola giacca, densa di amore. Si strinsero le mani e aspettarono insieme la nascita di una nuova giornata di dolore. La loro forza si era raddoppiata. Avrebbero affrontato con maggior vigore la sofferenza. Quando si è disperati, si dice che ci si possa attaccare a tutti e a tutto e Sara decise di attaccarsi al telefonino, di chiamar sua sorella che abitava a Brescia. Il primo, il secondo, al terzo tentativo riuscì. Parlò con la sorella per alcuni istanti, pochi istanti che salvarono la sua vita e la vita degli altri. Dopo la telefonata Sara fece un lungo sospiro, poi le cadde il telefonino, e batté con la testa sul bordo della barca. Alcuni dei profughi si alzarono e cercarono di prestarle aiuto. La sorella telefonò alla polizia che fece il resto. In poco tempo fu contattata la guardia costiera. I disperati erano sfiniti e addirittura qualcuno aveva perso i sensi quando i soccorsi arrivarono. Furono condotti a Lampedusa. Arrivati a piedi nel vicino centro di polizia furono interrogati e identificati. Ramid guardava il figlio che giocava beatamente nel caffè belga, mentre mi parlava di ciò. Il sacrificio della moglie non era stato inutile. Ora quel bambino studia e cresce per le strade di Brussel.

Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa (Napoli) nel 1979, dopo la laurea in Lettere viaggia per l’Italia e per l’Europa, sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permettesse di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese, perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandavano in diamanti e che avevano deciso di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tentava di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce un video-noleggio-libri, naturalmente abusivo; finchè, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunse la Finanza che gli intimò di chiudere in blocco l’attività. Non si perse d’animo e con tanta voglia e molti denari scelse la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conobbe la solitudine, il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riportò a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.

Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.
                                                                            

venerdì 27 aprile 2018

Mio fratello, Manuel.



Mio fratello, Manuel.

Ero appena uscita di scuola, e il vento incominciava ad alzarsi mentre le foglie ricoprivano i marciapiedi. Camminavo velocemente, quando si arrestò una macchina davanti a me, impaurita; si aprì la portiera posteriore, vidi che all’interno dell’abitacolo c’erano tre ragazzi giovani, non avrebbero avuto più di vent’anni.
“Falla entrare, prendila” urlava il ragazzo che guidava.
“Facciamo presto” rispondeva l’altro che era al fianco del guidatore.
Il terzo, seduto dietro, scese dalla macchina e con i capelli mi trascinava dentro. Tremavo come non avrei mai pensato che si potesse tremare. Sentii i passi di una persona, e poi la sua voce: era mio fratello, Manuel. Mio fratello lo prese a calci, lui lasciò i capelli, si rituffò in macchina e da lì sparirono, non li vidi più. Poi, Manuel mi abbracciò. Camminammo fino a casa e nel mentre  mi disse “Chissà come sarebbe stata la nostra vita con Mamma? Non seppi rispondergli. Mamma se n’era andata troppo presto, a volte il suo viso scompariva dai miei ricordi e dovevo rituffarmi nelle foto per riacciuffare momenti ormai trascorsi, e ricordarmi dei suoi particolari. Forse, sarebbe stata una vita differente. Oramai tempo ne 
era passato, e Manuel era andato via all’ennesima sfuriata di mio padre, di lì a poco avrebbe compiuto ventiquattro  anni. Dopo un po’ anch’io andai via di casa, mi sposai ed ebbi due bambini, ma il suo viso mi ha sempre accompagnato in tutto, quasi a diventare una delle mie ossessioni notturne più ricorrenti. Lo avevo ricercato in maniera incessante ma nessuno seppe mai dirmi un qualcosa che potesse dar forza alle mie speranze. Volatilizzato come non saprei dire.

Una sera trasmettevano uno speciale sui Clochard in tv. Erano le nove, e avevo messo a letto i  miei figli, aspettando mio marito. Finchè non rividi solo per un istante il volto di mio fratello. L’avevo ritrovato, per anni avevamo vissuto nella stessa città senza nessun punto d’incontro.

Non aveva una casa, i capelli erano radi, il volto stanco ma gli occhi erano sempre di un vivido azzurro come quella giornata in cui il vento scese e le foglie coprirono i marciapiedi. Parlammo e ci commuovemmo entrambi, raccontandoci ciò che avevamo condiviso e ciò che avevamo vissuto da separati. Alla fine lo portai via con me, donandogli ciò che lui, anni prima, aveva donato a me.



 Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.




Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.



mercoledì 28 febbraio 2018

Roma-Fiumicino, servizio extraurbano.











Allora, ti devo parlare in italiano? Visto che non mi capisci! Devi andare a scuola e farti interrogare in Scienze! Altrimenti, io ritorno a casa, perdo la giornata di lavoro e ti gonfio! È chiaro?” disse la signora Teresa.
Teresa, bassa e tozza, lavorava come donna delle pulizie allo “Sleep and Fly” un albergo di Fiumicino e spesso era nervosa o perché i datori di lavoro erano in ritardo con i pagamenti o perché i figli le creavano un sacco di problemi. Quella giornata era nervosa per i figli. Era un lunedì di febbraio, alquanto gelido, e quando ti alzavi dal letto portavi con te le coperte nel bagno. L’orologio faceva le 7,10 sul piazzale Eur Magliana, antistante il metrò, e i pendolari Roma-Fiumicino, infreddoliti, aspettavano il conducente per partire.
Gli ospiti consuetudinari erano Mislovacic Rado, serbo, la Signora Teresa e Gianni, Guardia Costiera, gli altri erano di giornata e spesso scendevano all’aeroporto. All’improvviso sull’autobus scese un gran silenzio, alla guida dell’autobus si ritrovava dopo mesi di assenze, Er moviola, con la sua barba da hipster e la pelata dorata, auricolare fisso e sguardo torvo. I tre, oltre a prendere ogni lunedì lo stesso autobus, avevano in comune un’altra cosa: avevano firmato e spedito una lettera di protesta nei confronti del Er moviola per i suoi numerosi ritardi accumulati nei numerosi viaggi su tale linea. Pelata dorata non l’aveva presa bene anche perché la compagnia gli aveva affidato le corse notturne e a lui giravano tanto le boccettine.
L’altra passeggera era una matta, una signora con un grande borsone che parlava sempre anche se nessun riusciva a cogliere il senso delle sue parole. Aveva dei capelli rossi increspati, e il viso rugato come un marinaio fenicio del VI secolo a.c. . Partirono alle 7,17, due minuti di ritardo, con Barba da hipster era ottimo, sarebbe potuto andare molto peggio.
L’autobus prese l’Aurelia ma da lontano si incominciò a intravedere una colonnina, che lentamente si trasformò in una grande colonna, inamovibile simile a un mulo di Pachino durante i ferragosti siciliani.
“Ahó, pregare il signore di arrivare alle 9,30 perché con Er moviola non c’è mai limite al peggio” disse il serbo.
Mislovacic portava con sé una tosse congenita dovuta al fumo e chissà a che altre cose, dei tre era l’unico tranquillo. Infatti lui era smontante, aveva lavorato in fabbrica di notte. Il serbo aveva firmato la lettera di protesta, solo perché voleva arrivare prima possibile a Ponte Galera. Niente, lo svincolo era bloccato. Un incidente tra una macchina e un camion con nessun ferito ostruiva il passaggio. Er moviola prese colore e alzò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore per vedere le facce adirate dei suoi due amici: erano con i cellulari, chiamavano i rispettivi capi per comunicare i propri ritardi e questa volta non era colpa del Pelata, per niente.
Er moviola: “Continuiamo per l’Aurelia e al primo svincolo
usciamo e poi rientriamo a Ponte Galera.”
Alcuni turisti stranieri si alzarono per capire cosa fosse successo. Dovevano essere dei francesi o belgi, perché dal loro inglese si sentiva una leggera flessione transalpina. Ebbero l’ardire di avvicinarsi al Er moviola, e gli chiesero in inglese che cosa fosse successo.
Barba da hipster li guardò almeno per un minuto, e poi gli disse:
“I don’ t speak english, I don’t understand.”
E i tre lo maledirono in francese.
Poi furono fortunati, e un passeggero non abitudinario gli spiegò l’accaduto e loro continuarono a bestemmiare in francese. Avrebbero perso l’aereo. E il ghigno malefico di pelata dorata diventava sempre più prepotente. Rientrarono a Ponte Galera con trenta minuti di ritardo. 
Ci fu il primo stop, entrarono due signore mentre Rado scese. 
“Ce vediamo domani, se arrivate!” disse il serbo.
Teresa per un attimo distolse lo sguardo dal cellulare e gli disse: “Fanculo tu e la Serbia!”
Incollata al telefono Teresa, aspettava il messaggio di Maria, una ragazzina, che frequentava la scuola superiore a Fiumicino e prendeva l’autobus a Parco Leonardo. Quella mattina ogni comunicazione era interrotta. Le avrebbe dovuto dire se fossero presenti i controllori. Alla fine, pensò che non ci fossero e non obliterò il biglietto.
La guardia Costiera leggeva il suo giornale e scambiava qualche parola con la signora Teresa. Era pugliese, e aspettava il trasferimento per Torre dell’Orso, trasferimento che ogni anno gli veniva negato; anche lui malediva tutti e in particolar modo un politico suo conterraneo, un certo Marsini e diceva che era colpa sua, se si trovava a Roma ed era pendolare per Fiumicino. Quella mattina, la matta si avvicinò e gli disse: “Aoh ti lamenti sempre!” fu la prima e ultima volta che la matta disse qualcosa di sensato. 
Arrivati a Parco Leonardo, i passeggeri trovarono i controllori. Multa da cinquanta euro per Teresa. Perfino la matta aveva il biglietto. 
I turisti francesi colsero l’occasione per protestare contro i controllori. 
“We have paid the ticket, but we have lost our plane for Paris” in gruppo gridavano mentre la matta li guardava con interesse. 
Il controllore, accerchiato, cercava di giustificarsi mentre gli altri passeggeri si lamentavano del fatto che l’autobus fosse fermo e avrebbe accumulato altro ritardo. Quella giornata non fu certo gioiosa per i passeggeri Roma-Fiumicino, servizio extraurbano ma per Er moviola sicuramente sì. E per la prima volta sulla fine della Portuense, quasi all’entrata di Fiumicino, sfiorò i cento.

Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.


Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.


martedì 23 gennaio 2018

Bolle di sapone in montagna.



Il meteo aveva detto che era stata una delle nevicati più forti degli ultimi anni. Ero appena tornato da uno dei miei viaggi di lavoro in Asia e non sentivo mio padre da più di un mese. Dopo la separazione da mia madre aveva deciso di vivere in montagna.  Ero leggermente preoccupato, a causa del maltempo, si erano interrotte tutte le comunicazioni. Papà scendeva in città una volta a settimana per il mercato biologico, viveva da solo  sopra i monti, producendo formaggi.
Avevo provato a chiamarlo diverse volte ma nessuna risposta. Avrei tanto voluto trascorrere Capodanno con lui, sarebbe tornata anche mia sorella Iris che lavorava a Roma.


Decisi di salire su.


Era sceso oltre un metro di neve: tutti gli abeti che accompagnavano la mia salita erano imbiancati, con i rami più bassi, carichi di neve, fino a toccare terra. Il percorso non era breve ci sarebbero volute due ore, mentre il cielo si copriva di nuvole lattiginose e il fiatone si impadroniva del mio corpo. Cominciai la salita, stretta e ripida, che mi avrebbe condotto ai grandi casolari.
La neve cadeva con impeto incessante. I miei passi sempre più profondi in una soffice neve, frattanto le gambe più molli. Arrivò il vento che turbinò i fiocchi prima di farli scendere sul suolo. La temperatura repentinamente si attestò sotto lo zero.
Si stagliavano sull’orizzonte bianco bolle di sapone, che lentamente scendevano dall’alto, non mi era chiaro cosa vi fosse dentro, solo sagome indistinte apparivano ai miei occhi, finchè non  riconobbi  nella prima bolla i miei genitori e nella seconda mia sorella Iris. Ondeggiavano sopra il mio corpo stanco, fino a che la mia vista si nascose nel bianco della neve.
Mi risvegliai in una piccola stube, vidi la sagoma di un uomo che armeggiava vicino alla stufa, e sentii l’odore della polenta che invadeva i luoghi.
L’uomo sentì il fruscio delle  coperte che coprivano il mio corpo infreddolito, e si girò.
“Ehi, allora come va?” mi disse l’uomo di spalle.
Riconobbi la voce.
 “Papà” gli dissi.
E lui si avvicinò con una tazza di the caldo.
“Volevo venire qua, ma la neve ha avuto la meglio”
“Ci sei riuscito! E tua sorella?”mi disse. 

 “Giù a Roma” gli dissi.
Si avvicinò al divano, sedette di fronte a me e parlammo. Ancora non era Capodanno e mia sorella era ancora a Roma, ma ero contentissimo lo stesso.




Aniceto Fiorillo

Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.

Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9 

e dei suddetti Racconti disaccordati.




- La signora Nunzia racconta il Signore Antimo -

  Era il 1990 e si svolgevano i mondiali di calcio in Italia, e io ero innamorato degli azzurri. In quel periodo dormivo a casa di mia nonna...

Italia vs Albania