Conobbi
Ramid in una tipica giornata belga, dove il grigio del cielo non avvolge solo
l’ambiente
in cui viviamo, ma anche l’interno delle persone, il loro animo, e così
trasforma le loro abitudini, i loro modi di essere. Anche quella giornata come
altre mi ero recato al Caffè Belga; presi una cioccolata calda, e scambiai
alcune chiacchiere con degli italiani. Erano le 10.30, quando al mio
tavolo si sedettero Josè e Ramid. Ramid era con un piccolo bambino, di
carnagione mulatta, sui cinque anni che aveva con sé un pallone. Josè
ci presentò. Ramid era un somalo. Lui, come altri, era un illegale. Aveva
iniziato a lavorare come cameriere, col tempo era riuscito a diventare cuoco
presso un locale eritreo, sito a Avenue Plasky 181. Ramid, di corporatura
gracile, si presentò parlando in italiano e mi disse: "Ciao come stai?", gli risposi con un sorriso.
Si trovava in Belgio da quattro anni: lavoro, lavoro, e tanta sofferenza
lo avevano accompagnato. Il Belgio fu il punto
di arrivo di un viaggio tortuoso che vide come tappe prima l’Italia e poi la
Francia. Arrivò in Sicilia con una di quelle carrette del mare proveniente
dalla Libia, raggiunse la città di Ancona in treno, durante il tragitto
incontrò dei controllori ferroviari che furono alquanto benevoli con lui non
chiamarono né la polizia né gli chiesero chi fosse, lo trattarono
come una qualsiasi ombra africana. Una volta arrivato ad Ancona, Ramid si mise
in contatto con alcuni trafficanti iraniani che gli promisero di farlo arrivare
in Francia, nascosto in un camion merce che trasportava cocomeri. L’obiettivo era
raggiungere la Francia e stabilirsi a Parigi.
Raggiunta la capitale francese avrebbe chiesto l’asilo politico come
rifugiato. Tutti conoscevano la situazione politica somala. Lui era convinto, il
governo francese avrebbe accettato la sua richiesta e in seguito avrebbe
portato la sua famiglia. Dopo aver pagato il viaggio ai trafficanti iraniani,
partì per la Francia in compagnia di un ragazzo iraniano, Saris che di anni
ne aveva 19 , caratteri mediorientali, capelli corti e
sguardo vivo, intelligente. La sua destinazione era Bordeaux ad aspettarlo vi
era il fratello maggiore. Partirono di notte, imboccarono
l’autostrada,
la prima fermata sarebbe stata Genova. Saris e Ramid viaggiarono in condizione
non pietose, erano nascosti in un doppio strato in cui erano soliti viaggiare
gli altri clandestini. Anche i conducenti furono molto gentili, entrambi
italiani. Trascorsero un’intera settimana mangiando cocomeri e bevendo acqua
minerale. Ebbero l’opportunità di conoscersi e di scambiarsi reciproche
informazioni sulle loro destinazione e futuri progetti. Arrivati a Genova di
mattina, i camionisti si fermarono per una breve pausa, mangiarono e si
rilassarono mentre Ramid e Saris chiusi nel camion si cibavano di cocomeri rossi.
Per i bisogni corporei usavano un piccolo foro che funzionava da bagno, e i loro bisogni corporali coprirono le strade per la disperazione degli operatori
ecologici delle varie regioni italiane. Oramai mancava poco per arrivare al
confine con la Francia, i due ce la avrebbero fatta. La notte dello stesso
giorno il camion raggiunse la città di Ventimiglia.L’
indomani arrivarono a Lione che fu l’ultima fermata. I due scesero dal camion e si salutarono. Ramid proseguì per Parigi. Saris per Bordeaux. Il somalo
percorse la tratta Lyone-Parigi in treno, chiuso nel bagno di servizio. Arrivò
a Parigi, di sera, senza conoscere nessuno, arrivò come o peggio di un cane
randagio bastonato. Senza un soldo in tasca, Ramid si aggirava per le strade
parigine cercando ti trovare un qualsiasi lavoro. I luoghi frequentati erano
associazioni caritatevoli che gli garantivano due pasti caldi al giorno e i
parchi. I parchi parigini, di notte, diventavano delle vere e proprie colonie
abitate da emigrati di ogni nazionalità: curdi, armeni, congolesi, afgani,
iraniani. Si attrezzavano e costruivano delle vere tendopoli fatte di cartoni e
di altri materiali arrabattati in giro. Erano centinaia che vagavano , anime in penitenza, i loro colori ormai erano un tutt’ uno con quelli
delle notte parigina. In questa sorta di tendopoli, Ramid conobbe le prime
persone. Cercò di capire quale fosse l’iter da seguire per presentare la
domanda come rifugiato politico, alcuni iraniani gli dissero di essere cauto e
di non farsi facili illusioni poiché la politica nei confronti degli emigrati
era diventata abbastanza dura. I due iraniani si erano visti respingere la
domanda perché non sussistevano le condizioni per essere considerati dei
rifugiati. Ramid presentò la domanda come rifugiato, sarebbero trascorsi alcuni
mesi prima di venire a conoscenza dell’esito. I mesi trascorsero in fretta tra
piccoli lavoretti come muratore e notti in bianco nei parchi, a sognare
e pensare alla sua famiglia in Africa. Ebbe la prima risposta che fu negativa.
Non si scoraggiò e andò avanti per la sua strada. Degli afgani gli
consigliarono di non perdere tempo in Francia e di porsi come obiettivo
l’Inghilterra o il Belgio. Il Belgio e l’Inghilterra in quel periodo erano i paesi
più propensi ad accettare le domande dei rifugiati, Ramid aveva due
alternative, recarsi a Calais e da lì imbarcarsi per l’Inghilterra o andare in
Belgio dove avrebbe potuto contare sull’appoggio di alcuni connazionali che da
anni si erano stabiliti nella capitale belga. Ramid optò per la seconda
opzione. Ancora una volta prese il treno e viaggiò di notte, destinazione
Brussel. Avendo messo da parte dei
soldi, riuscì a comprare il biglietto e il viaggio fu tranquillo, più
rilassante. I primi tempi in Belgio furono più favorevoli di quelli trascorsi
in Francia, più confortevoli per lo meno aveva un tetto sotto cui stare e un
lavoro da cameriere che gli permetteva di guadagnare, di condurre una vita più
che dignitosa. Il problema era sempre lo stesso, riuscire ad avere lo status di
rifugiato politico che gli avrebbe permesso di portare in Belgio la sua
famiglia. Il problema diventava sempre più urgente, anche in Belgio la
situazione si era capovolta, anche lì era diventato difficile ottenerlo. In
Europa ormai prevaleva la linea di aiutare i disperati nelle loro terre e di
conseguenza le autorità politiche nicchiavano nel rilasciare ogni sorta di
documento che permettesse agli stranieri di creare delle radici in Europa. Ramid decise di far partire sua moglie e
suo figlio senza permessi, avrebbero seguito il suo stesso percorso: Italia e
poi Belgio, e alla fine si sarebbero congiunti.
Il somalo abitava in periferia, divideva
il suo appartamento con altri emigrati, ma ancora per poco. Ramid aveva preso
in affitto un appartamento in Ixselles per la sua famiglia che lo
avrebbe raggiunto. La casa era da ristrutturare, ci sarebbero voluti
una trentina di giorni.Il somalo non riusciva più a controllare l’emozioni, parlava dell’arrivo del figlio e
della moglie con tutti, tutti sapevano e tutti gli domandavano. Per
ristrutturare casa aveva ingaggiato un operaio inglese specializzato
in lavori in economia. Forse l’ingaggio di quel operaio fu dovuto più all’
impellente bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia che a reali
necessità di ordine pratico. L’ appartamento era 60 metri distribuiti su un
unico piano. Le stanze da letto erano due, una per la moglie e Ramid, l’altra
per il piccolino, una cucina, un bagno. Il somalo con l’aiuto dell’operaio inglese
aveva deciso di pitturare di giallo canarino la stanza del bambino, di rosa la
loro stanza e di bianco le restanti pareti. Penso che l’inglese non abbia dimenticato
quel periodo trascorso con Ramid. Fu davvero da esaurimento per lui. Ramid gli
chiedeva mille cose e pretendeva dall’ inglese mille e uno risposte. Le domande
erano sempre le stesse. “Inglese, secondo te, piaceranno queste lenzuola a mia
moglie e questo gioco a mio figlio?” Domandava Ramid. E così che si andava
avanti, comprava il consenso dell’inglese con alcune birre e un piatto di
spaghetti con il pomodoro. Si lavorava fino a notte inoltrata, e spesso riattaccava al ristorante in un unico ciclo continuo da far
invidia alle migliori fabbriche specializzate. Ciò non dispiaceva al somalo che
aveva trovato nell’ inglese sia un' aiuto manuale che un supporto morale.
Divennero grandi amici, sgobbavano, si divertivano e uscivano quando potevano.
Per lo più si riunivano al Caffè Belga dove consumavano pacchetti di sigarette
e dozzine di Maes.
I
clandestini arrivavano da tutti i posti, erano senegalesi, pakistani, etiopi,
iraniani. Ognuno con una loro storia da raccontare. Arrivavano in Libia tra
mille difficoltà, attraversando il deserto o il mare. Una volta arrivati in
Libia, venivano nascosti in cantine anche per intere settimane. Si doveva
aspettare il momento buono per salpare. Venivano ammassati come bestie,
mangiavano pezzi di pane secco e bevevano acqua mezza salata. Arrivato il
momento giusto, si partiva. Si erano imbarcati dalle coste libiche di Al
Zuwara, di notte, erano diciotto su un barcone che massimo ne poteva contare
otto. Aggrappati l’uno sull’altro, erano partiti. Avevano avuto in consegna una
bussola, una piccola carta nautica e un bidone d’acqua, sempre mezzo salata, da
50 litri. Avevano salutato l’Africa e cercavano di abbracciare l’Italia. Per
molti di loro l’Italia rappresentava un punto di transito per raggiungere il
centro dell’Europa, per altri il loro obiettivo. Alcuni avevano dei parenti,
delle mogli, altri nessuno, nemmeno una valigia. Per staccare il biglietto avevano dovuto sborsare 1500 euro, senza ricevere nessuna sicurezza. Mentre si
allontanarono dalle coste africane, il silenzio si impadronì della barca. Gli
sguardi dei diciotto disperati erano profondi, più comunicativi delle parole.
I loro occhi erano rivolti al loro passato, alle coste africane, alla loro
terra, partirono non sapendo se o quando sarebbero potuti ritornare. Partirono. Nella
zattera, bianca e nera, a strisce, vi erano 18 persone di cui 3 bambini, 5
donne, 10 uomini. I diciotto erano di diverse nazionalità, otto erano somali, sei
senegalesi, quattro ghanesi. Lo scafista era senegalese, marinaio nel suo
paese, che in cambio della sua prestazione non aveva pagato il viaggio. Gli
altri erano per lo più impiegati come manovali nei settori dell’edilizia,
mentre le donne lavoravano come casalinghe. La nottata e i primi tre giorni di
navigazione trascorsero in relativa tranquillità. Non vi furono fatti degni di
nota, se non i primi sguardi di amore tra Teris e Sara. Per alcuni giorni
rimasero solo sguardi, Teris non ebbe la forza di sconfiggere la sua timidezza.
Teris, 18 anni, corporatura rocciosa, sognava di diventare calciatore e di
imitare il suo idolo Cannavaro. Ad aspettarlo in Italia vi era un cugino che
abitava a Torino e aveva fatto fortuna con lo spaccio delle droghe leggere. Nei
primi giorni italiani sarebbe stato suo ospite. Sara di anni ne aveva 21. Mora,
dai lineamenti dolci. Con la morte dei genitori era rimasta sola. In Italia,
Sara aveva un sorella sposata con un eritreo; la sorella, donna di servizio, il marito,
muratore, abitavano a Brescia. Avevano una piccola bambina, nata da poco. Sara,
nei primi tempi, si sarebbe occupata della nipote. Dopo tre giorni la fame e
la stanchezza incominciarono ad aprire la porta alla disperazione; mentre i
raggi del sole diventavano sempre più prepotenti e come frustate, scese dal
cielo, colpivano i profughi. La bussola non dava segni di funzionamento, forse
non li aveva mai dati. La benzina era terminata. Alcuni dei disperati
incominciarono a consultare le carte nautiche, senza capirci nulla. Una donna,
mulatta, tra i 30 e 35 anni, aveva in braccio un bambino sul volto della signora era dipinta
la paura di chi teme di essere in procinto di morire. La ragazza aveva posto
sul capo del bambino un piccolo cappello per proteggerlo dal sole infernale, e
di tanto in tanto gli bagnava le labbra con l’acqua salata del mare. Dalla
partenza erano trascorsi quattro giorni. Il quinto stava per nascere. L’acqua
era terminata, e con essa anche i viveri. I diciotto disperati, sotto le
martellate di un sole inclemente, avevano perso l’orientamento. Usavano l’acqua
del mare per bagnarsi sia la fronte che la bocca. Vi era un susseguirsi di
voci tra i passeggeri della zattera in merito alla destinazione da seguire.
Non si raggiungeva un accordo. Un ragazzo si alzò e prima di tuffarsi, disse: “Io
raggiungo l’Italia a nuoto.” Di quel ragazzo non si ebbe più notizia. Tra la
notte del quinto e del sesto giorno nella barca tutti erano terrorizzati.
Piangevano, pregavano ed invocavano Dio. Verso le cinque del mattino videro in
lontananza una piattaforma per l’estrazione del greggio. Dopo alcune ore di
navigazione la raggiunsero. Erano tunisini. Gli diedero del pane, dell’acqua
buona, della benzina per la barca e ripartirono. Al sesto giorno la ragazza
con il bambino in braccio morì di dissenteria. Era la moglie di Ramid. Gli
altri passeggeri a malincuore dovettero buttarla a mare, e a turno si
occuparono del bambino, tenendolo in braccio. Il bambino era diventata l’unica
fonte di gioia. Divenne il bene più prezioso, più prezioso delle loro disperate
vite. Ormai dei diciotto ne erano rimasti tredici. La prima a morire fu la
moglie di Ramid, dopo altre due donne e un ragazzo persero la vita. Morivano come
mosche. Schiacciati, annientati.
Il mare
sempre piatto mentre il sole continuava nella sua azione distruttiva. Sulla
zattera vi era solo il caos, nessuno sapeva che giorno fosse o quale fosse la
loro destinazione. Gli svenimenti, le crisi, le urla erano il pane quotidiano
masticato dai quindici disperati. Nello stesso tempo, il crederci accompagnava
il loro viaggio. I corpi scheletrici
erano la testimonianza diretta della sofferenza a cui erano sottoposti. Tra le
persone si comunicava con gli sguardi, non vi era la forza di parlare. Il sole
alto in cielo picchiava sempre di più. I quindici diventavano sempre più
deboli. Durante i giorni di navigazione, nacquero delle amicizie, amicizie vere
perché nate dalla sofferenza. Nacquero anche degli amori. Teris riuscì a
sconfiggere la sua timidezza, e si avvicinò a Sara. I due incominciarono a
scoprirsi. Entrambi somali. Lui carpentiere, lei casalinga. Entrambi in Somalia
lasciavano tante delusioni. Avevano poco, ma insieme avrebbero potuto unire
quel poco, e farlo diventare più grande. Arrivò la notte e con essa il vento,
Taris coprì le spalle di Sara con la sua piccola giacca, densa di amore. Si
strinsero le mani e aspettarono insieme la nascita di una nuova giornata di
dolore. La loro forza si era raddoppiata. Avrebbero affrontato con maggior
vigore la sofferenza. Quando si è disperati, si dice che ci si possa attaccare
a tutti e a tutto e Sara decise di
attaccarsi al telefonino, di chiamar sua sorella che abitava a
Brescia. Il primo, il secondo, al terzo tentativo riuscì. Parlò con la sorella
per alcuni istanti, pochi istanti che salvarono la sua vita e la vita degli
altri. Dopo la telefonata Sara fece un lungo sospiro, poi le cadde il
telefonino, e batté con la testa sul bordo della barca. Alcuni dei profughi si
alzarono e cercarono di prestarle aiuto. La sorella
telefonò alla polizia che fece il resto. In poco tempo fu contattata la
guardia costiera. I disperati erano sfiniti e addirittura qualcuno aveva perso i
sensi quando i soccorsi arrivarono. Furono condotti a Lampedusa. Arrivati a
piedi nel vicino centro di polizia furono interrogati e identificati. Ramid
guardava il figlio che giocava beatamente nel caffè belga, mentre mi parlava di
ciò. Il sacrificio della moglie non era stato inutile. Ora quel bambino studia
e cresce per le strade di Brussel.
Aniceto Fiorillo
Aniceto Fiorillo
Nato a Cesa (Napoli) nel 1979, dopo la laurea in Lettere
viaggia per l’Italia e per l’Europa, sia per piacere ma soprattutto alla
ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permettesse di scrivere senza pensieri:
a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando
l’inglese e il francese, perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del
cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si
imbatte in una dozzina di russi che contrabbandavano in diamanti e che avevano
deciso di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e
mentre tentava di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese
che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi
una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani!
Ritorna a Napoli dove gestisce un video-noleggio-libri, naturalmente abusivo;
finchè, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunse la Finanza che gli
intimò di chiudere in blocco l’attività. Non si perse d’animo e con tanta
voglia e molti denari scelse la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma
conobbe la solitudine, il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo
riportò a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del
Duomo, prima che vada a scuola.
Autore di Kilometro zero
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e dei suddetti Racconti disaccordati.
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e dei suddetti Racconti disaccordati.
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