mercoledì 1 dicembre 2021

- La signora Nunzia racconta il Signore Antimo -


 


Era il 1990 e si svolgevano i mondiali di calcio in Italia, e io ero innamorato degli azzurri. In quel periodo dormivo a casa di mia nonna paterna a Sant' Antimo, comune dell' hinterland partenopeo.

Non conoscevo bene mia nonna paterna, essendo cresciuto in un altro centro. I miei genitori decisero che avrei dovuto approfondire la conoscenza, anche se io, allora, non ero proprio convinto!

Mia nonna era una commerciante in materassi, alimentari, e non si faceva mancare nemmeno un po' di contrabbando di sigarette. I suoi affari erano concentrati a Napoli città, sul Monte di Dio dove possedeva un mini market, locali commerciali e appartamenti. A casa durante la mia infanzia avevo spesso sentito riecheggiare il nome di mio nonno paterno. Si chiamava Antimo. Si diceva che fosse un gran uomo, e che in poco tempo avesse costruito un impero economico prima che una cirrosi epatica lo avesse portato a miglior vita. Aveva 49 anni quando trapassò; ma erano solo voci che balzavano tra le quattro mura di casa, anche perchè mio padre era sempre restio nel raccontare di suo padre. La nonna, Nunzia, fu la prima persona che mi parlò di lui .


Quella giornata, il 3 Giugno del 1990, prendemmo il tram in piazza: ci sedemmo, e attraversammo Napoli nord; faceva caldo, e le persone boccheggiavano dal mattino. La sera si sarebbe giocata la semifinale del mondiale, Italia Vs Argentina, e il tifo era diviso: chi teneva per Maradona, e chi per l'Italia. Le strade, per metà, erano ricoperte da immagini che inneggiavano a Diego e l' altra era per gli azzurri. C'era un gran caos, e si sentiva la tensione di una partita fondamentale. L'aria oltre che calda, era gravida di emozioni per coloro che, nel calcio, riponevano speranze.


Giunti nella zona mercato incrociammo un magma umano, pronto a esplodere: contrabbandieri, venditori ambulanti e pescivendoli che, con i loro volti scavati da storie, si muovevano con disinvoltura in quei anfratti urbani. E io li osservavo mentre nonna comprava mercanzie che avrebbe venduto nella banlieue napoletana. A piazza mercato ci imbattemmo in Donna Concetta, era la proprietaria di una pizzeria. Aveva dei tavoli sempre affollati da personaggi pittoreschi, io addentavo una pizza a portafoglio mentre la nonna confabulava con lei. Con le chiacchiere loro ritornavano ai tempi in cui era tutto diverso! Le avrei volute vedere, adesso, sbirciare tra il Mercato e la Duchesca, e comprendere il fatto che fossero completamente nelle mani dei cinesi. Sarebbe stato uno sballo osservare i loro visi sbalorditi da tali cambiamenti!




Arrivati sul Monte di Dio, nonna mi raccontava di come il nonno, in poco tempo, aveva realizzato una bella fortuna e mi accompagnava con la mano, orgogliosa, a conoscere i luoghi dove erano ubicati gli appartamenti e i locali commerciali comprati dal nonno. Alla nonna brillavano gli occhi mentre raccontava del suo uomo. Mi diceva che Antimo, così a volte lo chiamava, era una persona elegante, amava gli abiti sartoriali, li comprava a Riviera di Chiaia e che, se non fosse morto così giovane, noi avremmo accumulato miliardi di lire.

E poi si dispiaceva e le languivano gli occhi mentre attraversavamo via Gennaro Serra, e continuava:

Io, da sola ho fatto quello che ho potuto, con nove figli!

Ma cu' nonno sarebbe stata n'ata storia”.

Povera Nonna, avrebbe voluto realizzare più di quanto avesse fatto.

Che era già tanto.

E poi ci incuneavamo trai vicoli del Pallonetto dove raramente batteva il sole fino al basso dove abitava Massimo Ranieri che, da bambino, lavorava come garzone al negozio del nonno, consegnando con altri piccoli scugnizzi le spese ai nobili della zona.


Il pomeriggio, fuori dall'alimentare, seduto su una cassa di gassosa, piluccavo 'a marenna con prosciutto crudo e mozzarella di Aversa, e la nonna borbottava con i miei due zii, Carmine e Raffaele, di qualche possibile affaruccio. Li ascoltavo intanto che mi rifocillavo. Frattanto, a velocità sostenuta, sfrecciavano motorini e vespe, di diverse cilindrate, con delle bandiere dell'Argentina, inneggiando all'unico grande re, Diego Armando Maradona. Diciamolo tutta, in provincia, la partita era combattuta ma a Napoli centro il tifo era tutto per sua Maestà, Diego. E poi prese la parola zio Carmine raccontando attimi della sua infanzia con mio padre, i due erano coetanei, appena un anno di differenza e di come il nonno fosse un uomo molto severo e che loro si comportassero da soldati al suo cospetto; intanto zio Raffaele era intento a far di conto dietro la cassa del minimarket.

La nonna si era accomodata su una sedia fuori dal negozio e, all'improvviso, disse:

Era 'o '43, era aumentat tutt'cos

'o pane , ' a pasta. C'era 'o contrabbando!

A Napule si moriva di fame!

Quanta gent' aggi' vist 'i muri',

'o p' fame, o pi' bombe. Assai!

Aveva preso dalla sua borsa un ventaglio, con il quale nonna abbatteva la calura della giornata. Lo zio Carmine si era acceso una sigaretta, e a passo lento, passeggiava, chissà quante volte aveva già ascoltato quella storia. Lo zio Raffaele continuava a far di conto nella bottega.

'O nonno teneva 20 anni, e io 18, si era comprato nu' pulmin picciril, e jevem e venevem da nu' paese vicin' Benevento. Là accatavam tutt'cose, 'o furmaggio, 'i pomodori, uova, ' a carne, che allora sul' 'i signuri se la potevano permettere.

'O nonno tenev nu' buon cumpagn, nu'nobile, abitava n' cop Monte di Dio, e c'accurdamm, noi gli portavamo 'ste cose, e lui c'pavava con oro e collane perchè allora, p'mezz la guerra, 'a lira nu' valeva niente.

Chella sera ru' scambio, m'a ricord buon, caur assai, e luci miezz' a vi' nu' funzionavan, nott' assai era. ' Ra luntan' virimm ' na sagoma, era un nobile, e poi due suoi guaglioni.

Eravamo messi 'a rent ' o vic Solitario, ca' vicin, e avevamo 'o pulmin chien. Eravam cuntent assai, eravamo guaglioni.

Bell'e'buon, 'a rint nu' purton uscirono due carabinieri, e ci portarono int' a caserma. C'arrstaran' a tutt'quant'e rummettem 'ngaler a Pizzo Falcone. Poi 'a matin' ci fecero asci', grazie 'o nobile.


La nonna riprese a soffiarsi con il ventaglio, si alzò, mi toccò la testa e mi disse:

Anicè, int' 'a vita, tutt' esperienza.


Rimasi di stucco, ipnotizzato, nel sentire quella storia tanto che zio Carmine, una volta tornato dalla passeggiata, mi disse : stat'accort che fai carè 'a muzzarella!

E per poco non cadde.


Verso le 19:00 quando l'aria aveva appeno iniziato a rinfrescare, agguantammo, a Municipio, l'autobus per Sant' Antimo. A metà del corso di Secondigliano l'autobus si piantò di colpo. A detta dell'autista si fuse il motore. Eravamo nervosi. Mancavano venti minuti all'inizio del match. L'autobus non riparti più. Fummo fortunati: all'angolo era allocata una tavola calda con un discreto televisore. Con la nonna ordinammo delle pizze e delle gassose.

Schillaci ci portò in vantaggio al 17’, poi Caniggia pareggiò al 50’. La partita finì ai rigori. Fu una serata di gloria per Goycoechea, il portiere che ci eliminò; per me, invece, la mia prima delusione sportiva. Piansi tutta la notte.


domenica 18 aprile 2021

 


Adolesco


Adolesco si presenta come un romanzo di formazione, e come tale attraversa le fasi di crescita di un ragazzo delle scuole superiori tra revenge porn, omosessualità criptica e fecondazione artificiale. Il protagonista della storia si chiama Tommaso, un sedicenne, figlio della facoltosa borghesia, agli arresti domiciliari per un caso di revenge porn.

Attraverso un registratore vocale il ragazzo ci racconta il suo universo e, di punto in bianco, sulle pagine del romanzo scorrono con impeto coinvolgente scene di sesso esplicite e riflessioni dissacranti, a tratti molto forti che disorientano chi legge e il flusso di coscienza del protagonista completa l'opera, mettendo a nudo le sue più intime pulsioni e il suo mondo fatto di ribellione e di rabbia nei confronti degli adulti che vengono descritti come dei corpi estranei alla galassia giovani, con le loro inutili imposizioni e schemi da borghesi benestanti. È un urlo contro una società lontanissima dai ragazzi e nello stesso tempo rappresenta uno spazio aperto in cui chi vuole conoscere gli adolescenti di oggi può muoversi e imparare liberamente.

Il linguaggio è duro e sincero, e ben si addice al mondo giovanile di cui fa parte il protagonista; come lo stile scattante e paratattico che ingloba il lettore in un vortice da cui si esce soltanto con la fine del romanzo. Perturbante!

L'autore del romanzo non rivela sua identità ma narra le sue storie attraverso un pseudonimo Timothy Megaride. Di lui sappiamo con certezza che abbia alle spalle diverse pubblicazioni, certo la scelta di non mostrarsi aumenta in maniera vertiginosa il senso di mistero attorno a un'opera che potrebbe segnare un genere letterario.

Dal romanzo:

Vi voglio far capire che le cazzate non le fanno solo i drogati, le fanno anche i normali. Se non avete capito, fottetevi!

Il libro è stato pubblicato dalla giovane casa editrice romana il ramo e la foglia edizioni che è alla sua terza uscita. Gli ideatori di questa nuova esperienza editoriale, Roberto Maggiani, Giuliano Brenna, provengono dalla rivista letteraria, online, La Recherche, fondata nel 2007 e attualmente attiva. Il libro è in vendita in ogni libreria sia essa uno spazio fisico che on line.

Pagine: 224 p., Brossura. € 16,00


giovedì 14 maggio 2020

Il capanno





 





Sedevamo a cavalcioni su un muretto a secco, e davanti ai nostri occhi si apriva una grande distesa di grano.
A scuola la maestra mi ha detto che impariamo a leggere quest'anno, tu sei in seconda elementare, com' è?” mi chiese Beniamino.
Bello, impari a leggere le insegne luminose dei negozi - mi toccavo di continuo le gambe, ero inciampato in ortiche selvatiche - e a contare le figurine!”

Andiamo! ” mi disse Beniamino.
Esitai un attimo, poi gli feci cenno di sì con la testa.

Ci incamminammo, lasciandoci indietro il muretto e degli avulsi palazzoni che erano le nostre case.
Tirammo diritto per trecento metri prima di arrivare al vecchio capanno. Non era grande, tavole di legno grezzo ormai bruciate al sole.
Ci avvicinammo alla chetichella, giunti alla finestra, buttammo lo sguardo dentro. Un fornello a gas, una sedia di legno a dondolo, e lì all'angolo due corpi, giovani, si muovevano con ferocia su un lettone: lei sopra dava le spalle, ricoperte da ricci rossi, ai nostri occhi. Io e Beniamino in silenzio guardavamo. Aveva appoggiato le sue mani sul petto di lui, lui l'aveva stretta a sé.
Ridevamo a crepapelle, e pensammo che avremmo voluto essere al posto del ragazzo perchè era contento e anche la ragazza lo era. Suoni striduli di vecchie rotaie ferroviarie si diffondevano nella campagna, facendo sobbalzare i nostri esili corpi. E poi presero ad abbracciarsi, ad accarezzarsi, i visi, le gambe, i capelli.
Dopo un po' ci avviammo verso casa, lungo il tragitto incrociammo un gruppo di ragazzotti che armeggiava con tabacco e filtri, divertendosi.
Domani torniamo?” mi chiese Beniamino
Senza esitare gli risposi che per me sarebbe andata bene.


Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.




Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.

domenica 10 marzo 2019

Rafat









Rafat aveva circa quaranta anni, musulmano non praticante e al Caffè belga conosceva un po’ tutti. Si faceva chiamare il Senatur di Ixselles per i suoi numerosi anni trascorsi da emigrante in territorio belga. Era arrivato dal Bangladesh nel lontano 1989, con la speranza di laurearsi in legge presso l’università di Leuven ma la speranza presto si trasformò in pura illusione e i libri furono sostituiti da grossi bicchieroni di Birra Maes. Nei giorni lavorativi il Caffè Belga, in Piazza Flagey, era frequentato da chi cercava lavoro o da chi sfruttava lo chaumage messo a disposizione dal generoso e assistenziale stato belga. Vi erano i bengalesi con i loro ristoranti, i polacchi con le loro imprese di costruzioni, gli italiani con le loro lauree e gli spagnoli, non mi ricordo bene con che cosa ma c'erano anche loro!


Verso le dodici (a.m) si presentò Rafat, accompagnato da una figura amica, si sedettero. Rafat non era alto, di carnagione olivastra, da lontano mi fece segno di accomodarmi al suo tavolo e andai. Ordinarono tre Maes, due per loro e una per me. All’inizio della mia permanenza in Belgio il problema principale che dovetti affrontare fu quello della comunicazione, del francese non avevo la più pallida idea e il mio inglese era davvero bad. Con il Senatur, più o meno, utilizzando il mio cattivo inglese riuscivo ad avere uno scambio di idee che mi portò a capire che quella figura amica era Jose Ina Blanco, spagnolo trapiantato in Belgio da oltre venti anni.

Lo spagnolo che aveva una forte somiglianza con Homer Simpson, portava degli occhialetti alla Gramsci, ed era sposato con una belga. Mi raccontò che la sua donna era un'insegnante di spagnolo, e altro!

Sono un imprenditore edile, il mio obiettivo, fare più soldi dei polacchi, quelli fanno soldi a buttare con l'imprese di costruzioni - deglutiva un attimo e riattaccava - e che sono meglio di me? - ri-tracannava la sua Maes - non sono meglio di me!” concluse lo spagnolo.



Antimo, un nostro comune amico, italiano, aveva comprato un piccolo appartamentino a Montgomery, e aveva affidato i lavori a Jose; passati i primi trenta cinque gironi, l'italiano nel trilocale aveva trovato solo macerie: l’impianto elettrico non funzionante, il parquet rialzato; una baraonda e il caro Jose in breve tempo fu sollevato dall’incarico.

Oltre a esser un imprenditore edile di ampie prospettive, Blanco amava bere Maes, nonché perdere tempo al Caffè Belga ed essere presente ad ogni festa. Le feste di Brussels erano tra gli eventi più carini che la città potesse offrire, se eri fortunato e avevi i giusti agganci potevi festeggiare ogni giorno della settimana, praticamente io, Rafat e Jose eravamo sempre impegnati. Il lunedì si andava all'Heysel dove era folta la comunità bengalese, le loro feste si contendevano con quelle dei brasiliani la palma della più bella. I festini bengalesi erano strutturati nel modo seguente: l’apertura era riservata a un anziano della comunità e ciò denota come la bengalese fosse una società di tipo patriarcale. Durante il discorso dell’anziano regnava un silenzio tombale, interrotto solo da Rafat che diffondeva volantini illustranti le attività culturali, gli obiettivi che la comunità si impegnava a raggiungere. Il Senatur era orgogliosissimo di stare tra la sua gente e di occuparsi della difesa dei diritti dei bengalesi in Belgio. Alla fine del discorso si aprivano le danze e di solito andava si avanti fino alle tre del mattino anche se gli irriducibili ed io, Jose, Rafat ne facevamo parte, duravamo come pile Duracel fino alle cinque, tanto il giorno seguente, massimo, si andava all'ufficio per firmare lo chaumage! In uno di questi festini mentre ballavo con Rashida, una ragazza della regione di Dacca, bella e abbondante di fianchi, si avvicinò il Senatur e mi disse: “Aniceto, mi candido alle elezioni comunali!”

Gli risposi: “Quello che vuoi!” e ripresi ad abbracciare la mia bengalese.


Assorbita la serata e la relativa sbornia, mi resi conto che davvero si sarebbe candidato alle elezioni comunali con Life che era nato nel lontano 1996 per difendere i diritti dei Bengalesi in Belgio, anche se sotto la regia di Rafat, il partito aveva tentato di allargare i suoi orizzonti, offrendo assistenza a tutti gli emigranti, senza nessuna distinzione di continente, di colori e di regolarità.

Polacchi, italiani, spagnoli, norvegesi, persone di ogni dove” era l’apertura del comizio elettorale.

Il Senatur di Ixselles, tra il serio e il faceto, aveva organizzato anche un piano marketing, così sintetizzabile: quattrocento voti, il numero sufficiente per entrare nell’amministrazione comunale di Ixselles; mentre il programma politico prevedeva aumento del 15% del vitalizio di disoccupazione per ogni emigrante regolarizzato. Secondo punto, diminuzione del 20% del costo degli asili nidi. Infine, il fiore all’occhiello del programma: provvedere al pagamento di duemila euro alle famiglie per ogni bambino messo al mondo.


La base logistica delle riunioni fu la struttura polivalente all'Heysel che finì d'essere polivalente per diventare esclusivamente comitato politico pro Rafat. Lì erano preparati i discorsi, i piani d’azione, il materiale propagandistico. Con il tempo le numerose feste furono sostituite da numerosi comizi che si svolgevano a Ixselles, ed erano diretti ai numerosi stranieri. Durante il periodo pre-elezioni decise di smettere di bere, andava in giro con il vestito elegante, e con ognuno si spendeva nell’illustrare i suoi progetti. Rafat pensava che tutti gli fossero amici, lui baciava e salutava tutti ma la realtà è una cosa estremamente differente. Venne il giorno delle votazioni, e il Senatur divenne più nero del solito. Esito delle votazioni: Rafat 38 voti.

Non cambiò molto nella vita di Rafat, ricominciò solo a bere. Tra feste, cene e comizi elettorali, guadagnai sempre di più la fiducia di Rafat che incominciò a spogliarsi delle sua intimità. Il Senatur era sposato con una donna belga, in molti dicevano che quel suo matrimonio appartenesse a quel genere di unione in cui, io, sposandomi ottengo la cittadinanza belga e tutti i diritti connessi e tu, donna, ottieni un marito per passare il resto della tua vita. Non so se per Rafat fu così.

Un giorno, Rafat mi pregò di seguirlo perché voleva presentarmi la sua famiglia. All’inizio io esitai ma lui insistette così tanto che fui costretto a cedere. Il tragitto non fu lungo, ci vollero dieci minuti per raggiungere Rue de Castrò. Il palazzo dove abitava Rafat non prometteva niente di buono, anzi. Salimmo le scale, la confusione era totale: bici in disuso, pacchi, giornali e un fetore da far vomitare un maiale. Dopo aver attraversato quella sorta di labirinto, giungemmo al terzo piano: si sentiva echeggiare un'accattivante melodia di qualche compositore di cui, a causa delle mie scarse nozioni musicali, non vi saprei dire il nome. Entrammo nella stanza di ingresso che contemporaneamente era sala da pranzo + salotto, un unico ambiente barocco. Entrato nell’appartamento mi trovai di fronte  un letto-matrimoniale-divano che era incastrato sotto un armadio, sul lato sinistro vi erano mille duecentocinquanta cose posizionate senza un ordine ben definito e un balcone che affacciava su Piazza Flagey.

La prima persona che vidi fu Cristofer, un ragazzo dagli atteggiamenti effeminati che preparava un'insalatina. Era alto, e con i capelli sparati verso l'alto e poi i miei occhi si appoggiarono su Nenè, settata anni, truccata peggio di una ragazzina di sedici e portava due orecchini talmente pesanti che rendevano i suoi orecchi simili a un elastico che prendeva una forma diversa a secondo dei pesi a cui era sottoposto, infine, Benedette che era la moglie belga di Rafat; ad occhio avrebbe potuto avere circa 50 anni portati mali, e due occhiali spessi con capelli lunghi e sporchi. Quella atmosfera di quiete, aleggiante nell’appartamento, fu di colpo squarciata dal grido di Benedette che in preda a un attacco di ira si scagliò contro Rafat, reo di essere arrivato in ritardo alla cena della domenica. L’ attacco non si limitò alle grida ma fu accompagnato da violenti schiaffi e sputi, Rafat colpito nella dignità, si sedette e non seppe trattenere le lacrime; si rivolse a Nenè che si faceva compagnia con una bottiglia di vino rosso, e le disse, “la vedi come si comporta?”, la vecchietta chinò la testa come segno di assenso e lo invitò a bere mentre Benedetta continuava nelle sue performances di musiche e di insulti.


Dopo la cena gustai con Rafat un vero espresso al Bar Sicilia, poco lontano da Piazza Flagey. Lì conobbi la doppia vita del bengalese. Il motivo per cui Benedette si infuriò non fu tanto determinato dal fatto che Rafat fosse arrivato in ritardo alla cena della domenica ma era dovuto all’imminente viaggio del Senatur in Bangladesh. Sarebbe dovuto ritornare a casa, lì aveva due bambine: mi mostrò le loro foto e nei loro occhi si intravedeva la stessa gioia che Rafat possedeva nei suoi. Rafat era il figlio di un politico molto influente, il padre era stato per molti anni governatore della regione di Dacca ma la stabilità economica e politica di quel paese era ed è un optional, guerre fratricide erano all’ordine del giorno, e Rafat, entrato nell’occhio del ciclone di alcuni rivoluzionari, causa la sua veloce ascesa politica, fu costretto ad abbandonare la sua vita per trasferirsi in Belgio. Benedetta sapeva tutto. Benedette si era sentita ferita nel suo orgoglio di donna che era costretta a dividere il suo amore con un’altra, con la paura di perderlo per sempre. Sapeva che nel cuore del Senatur vi era il suo mondo, le sue due bambine, il suo Bangladesh e a volte non riusciva proprio ad accettarlo. Ci vollero sette mesi per rivedere il Senatur in Belgio.


********


Arrivato in Bangladesh, gli dissero che avrebbe dovuto recarsi in ospedale, Suami, la figlia più piccola, era stata ferita in un conflitto a fuoco, in un insulso conflitto che ogni giorno anima le strade del Bangladesh. Lì trovò la moglie, l'altra bambina e il restante della famiglia. Era stata colpita da due colpi di arma da fuoco. I medici sentenziarono che sarebbe vissuta dieci giorni. Durante quei giorni non mancarono le discussioni tra Rafat e sua moglie. La moglie lo accusava di essersi dimenticato di lei, delle sue figlie, del suo mondo. Rafat accusava i colpi, ormai era diventato un abile incassatore, lasciò perdere, e si concentrò solo sulla piccola. Suami e Rafat erano separati da un vetro: non poteva toccarla, poteva solo vederla. Il Senatur non toccò né cibo e né acqua, non parlò con nessuno. In cuor suo si sentiva colpevole, di non aver potuto vedere la figlia crescere, di non averla potuta salvare. Suami morì al nono giorno. Era stata ammazzata, durante un giorno normale, in una strada normale, mentre si recava in una scuola normale, ma la normalità non le apparteneva.


Quando rividi Rafat in Belgio,  ritrovai una persona  consunta dal dolore. I suoi occhi che, un tempo, diffondevano gioia, ora trasmettevano una ferocia tristezza. Ci rincontrammo al Caffè belga, si sedette e mi raccontò del suo viaggio in Bangladesh. Mi raccontò di aver diviso l’eredità paterna con i fratelli, e che a lui era toccata una bella fetta tanto da poter vivere di rendita! All’improvviso arrestò le sue parole, si fermò come se fosse stordito: alzò la testa, mi guardò negli occhi e decise di raccontare ciò che, poco anzi, ho scritto. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Mesi dopo, venni a sapere che Rafat si era impiccato nella sede del partito Life, dopo essersi ubriacato di Maes.


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.


domenica 11 novembre 2018

Il pilota e la comunità belga










Il pilota e la comunità belga


"I brasiliani belgi" erano circa diecimila, suddivisi tra Bruxelles, Namur ed Anversa; erano meno dei brasiliani d’Inghilterra ma sempre di più dei brasiliani d’Italia; anche loro avevano capito che in Italia tirava una brutta aria. Vi dirò di più, molti dei "brasiliani belgi" avevano avuto come prima esperienza europea proprio l’Italia ma subito avevano fatto le valigie per il più ospitale Belgio. In terra belga ebbi la fortuna di conoscere approfonditamente la comunità carioca. Analizzando la loro tipologia di emigrazione, capivi che come altri migravano per avere una vita migliore. La loro migrazione aveva caratteri temporanei, durava quattro, cinque anni e poi ritornavano in Sudamerica. I carioca avevano un amore smisurato per la propria terra e soffrivano di una forte saudade che li costringeva a tornare. Parlandoci, mi ero reso conto che ognuno aveva una piccola fattoria da gestire in Brasile, il sogno era comprare quante più vacche fosse possibile, di costruire una fazenda e di diventare fazenderi. L’idea non era malvagia, anzi aveva la sua logica: andare in Brasile a crescere vacche. Carlitos, che in Belgio lavorava come muratore a cottimo, ne possedeva circa trenta e alla cinquantesima vacca avrebbe fatto le valigie e sarebbe ritornato a casa con sua moglie e i suoi due figli; il mio parrucchiere gay, Sosinho, ne aveva soltanto diciotto, ed era geloso degli altri che ne avevano molte di più. Il migliore di tutti era il Pilota: il Pilota era al di sopra di tutti "i brasiliani belgi" che avessi conosciuto. Il Pilota rappresentava un sogno, anzi, per meglio dire, il Pilota era il sogno. Si chiamava Gomes do Santos, quarantasei anni, proprietario terriero in Brasile e titolare di un’impresa di pulizie in Belgio, denominato il Pilota per il suo sogno: diventare pilota d’aeroplani. Conobbi il Pilota a una tipica festa brasiliana a base di carne, fagioli, riso e jupiler (birra). Quando lo vidi, subito risi: il Pilota, alto circa un metro e sessanta con una leggera pancetta da imprenditore, era fidanzato con una ragazza che minimo in altezza gli dava quindici centimetri, aggiungendo i tacchi i centimetri arrivavano a venticinque. La sua donna si chiamava Maria, italiana, laureata in Economia, lavorava come manager alla Canon, bellissima ragazza e personalmente mi chiedevo che cazzo ci avesse trovato nel Pilota. Su Gomes do Santos tutto si poteva dire tranne che fosse bello, forse aveva il fascino del quarantenne. Il Pilota era un irregolare, sans papier. La sua azienda contava la bellezza di quindici dipendenti, molti dei quali erano brasiliani, altri portoghesi, alcuni cileni. Il suo business si rivolgeva a piccole, medie ditte, e a complessi abitativi; non so se fosse davvero laureato in legge come diceva fieramente, ma di una cosa era certo: oltre a essere un sognatore era anche una volpe. Soffriva di uno sdoppiamento di personalità, di giorno materialista, di notte sognatore. Si immaginava pilota di aerei, di un suo aereo privato, e di volare per il cielo del Brasile accompagnato dalla bandiera brasiliana e da Maria, che quando ascoltava il Pilota dimenarsi tra i suoi sogni quasi piangeva. Il modo per conoscere i carioca erano le feste che erano una delle cose migliori che il Belgio potesse offrirmi, in primis erano “free”, e in più era assicurato cibo e divertimento. Alle serate erano presenti tutti, e chi aveva i figli li portava con sé, e i bambini erano costretti a far notte e mattino. Ricordo che il primo party, a cui partecipai, si svolse presso la casa del Carlitos, ci andai in compagnia di Josè e di mio fratello. L’abitazione si trovava nei pressi dell’Arco del Cinquantenario, una villetta di due piani con giardino retrostante. Il Carlitos si trattava bene, del resto essere muratore in Belgio rendeva. A volte pensavo che, se avessi avuto il dono di rinascere, mi sarei scelto un lavoro pratico: l’ elettricista, l’ idraulico, quei lavori che gratificano, ma gli eventi ti portano a percorrere altre strade. Ritornando al muratore a cottimo, oltre ad avere una casa con due piani aveva anche una moglie e due figli: Gustavo e Antoninho. I suoi bambini, di cinque e sette anni, frequentavano regolarmente la scuola elementare, parlavano francese tres bien e il processo di integrazione filava liscio come l’olio anche se soffrivano come dei cani a stare in Belgio. I carioca potevano essere accomunati un po’ ai napoletani, pensavano solo al divertimento; il lavoro e le preoccupazioni abitavano lontano. Di politica, non sapevano nulla. Una volta si parlava dell’11 settembre quando d’un tratto arrivò il Carlitos che, sentendo 11 settembre, fece riferimento alla data di nascita di Ronaldo. Di Bin Laden e del terrorismo poco ne capivano, vivevano in una sorta di beata noncuranza di come il mondo stesse andando. Erano così. Quando mi parlavano delle loro famiglie non vi dico i disastri: in media, una ragazza brasiliana di ventitré anni alle spalle aveva già un matrimonio, un divorzio e un bambino da sfamare in Sudamerica. Se la mia povera nonna li avesse potuti ascoltare, di sicuro avrebbe esclamato:o signore mio, mai peggio! Di disastri ce n’erano svariati. Tanto per citarne uno, vi era il disastro del Belardo. Il Belardo, muratore, lavorava con Carlitos, aveva ventisei anni, e un fisico simile al portiere del Milan Nelson Dida, longilineo e magro; lo chiamavano Mister 48, perchè era il numero di vacche che possedeva. Era stato sposato e divorziato, aveva due figli in Brasile e una nuova fidanzata in Belgio, Lima.

Intanto la festa continuava e ben presto capii che quella sera sarebbe stata una sera di grande conquiste. Dopo una settimana di lavoro al call center dove ti contavano anche i secondi per urinare, volevo solo distrarmi con delle donne brasiliane. Riuscii ad avvinghiarmi a una ragazza bionda, mai vista prima. Mi ricordo che parlammo poco, anche perché masticavo modicamente il portoghese: incominciai a baciarle il collo e finii alle labbra, tra me pensavo anche questa sera mi sono guadagnato il pane. Intanto mi accorgevo che il tasso etilico delle persone non accennava a diminuire e pure le grida e la musica aumentavano in maniera esponenziale. Preso dalla bionda, ero nel mio paradiso artificiale e nel momento in cui la confusione era al massimo si sentì il suono del campanello e di punto in bianco il silenzio si impadronì della casa. Carlitos si avvicinò a mio fratello e lo pregò di andare ad aprire. Io, mio fratello, Josè e Maria eravamo gli unici regolari della festa, gli altri, i brasiliani, tutti irregolari. Andammo, aprimmo e ci trovammo di fronte due agenti in divisa, di età compresa tra i venti e i ventiquattro anni. Ci presentammo. Gli agenti ci invitarono a favorire i documenti, "Italiani" disse uno dei due. Quando una persona ti dice "italiano" non sai mai se lo dice in modo ammirato o in modo schifato, nel nostro caso era in modo ammirato. Il più piccolo dei due si chiamava Michele, era figlio di emigrati italiani in Belgio. Ci disse che era calabrese, discutemmo dell’Italia e del Napoli di Maradona. Entrammo subito in sintonia. Era fatta, avevamo evitato il peggio che significava perquisizione dell’appartamento con relativa espulsione del proprietario, ossia del muratore a cottimo che avrebbe finito di collezionare vacche.
Dopo aver salutato gli agenti, tornammo dentro. Trovammo solo desolazione. Dei brasiliani nemmeno l’ombra. All’improvviso, mio fratello udì la voce di Carlitos: "
Ancimo, Ancimo, Ancimo". Stava per "Antimo", il nome del mio brother, i brasiliani avevano un problema con la t. Il muratore aveva scavalcato il muro di cinta della sua abitazione per paura di essere rispedito in Brasile e gli altri avevano seguito l’esempio. Invece, il Belardo si era nascosto al piano superiore, la ragazza bionda, dileguata, non la vidi più. La moglie del Carlitos aveva trovato rifugio su un albero di limone mentre Maria era andata alla ricerca del Pilota. Si trovarono e si abbracciarono.



Maria e il pilota.

La storia del Pilota e di Maria era degna di una soap opera sudamericana, non mancava niente: l’ amore, la separazione, i litigi e le riappacificazioni. Ciò andava avanti da due anni, più o meno. E poi c’era la madre di Maria. La prima volta che la mamma di Maria vide il Pilota, mise sottosopra l' intera regione di Bruxelles. "Hai perso la testa - ripeteva alla figlia - non sai cosa fai, un brasiliano! Quelli sono dei mascalzoni, e poi cosa ti ritrovi? E se fai un bambino? E se quello decide di andarsene in Brasile, tu cosa fai?"
Maria accusava il colpo
e con la testa china diceva: "Hai ragione, è una ragazzo che non fa per me, domani lo lascio".
Lei lo lasciava ma il giorno seguente erano di nuovo insieme.
Il Pilota era un bravissimo ragazzo, ma con enormi difetti. Un po’ duro di comprendonio, un tipico brasiliano con tutti i
pros and cons della situazione: vita sregolata, orari che non esistevano, voglia di divertirsi. Mentre la madre, ovviamente, per Maria voleva soltanto il meglio come qualsiasi madre. Immaginava la figlia sposata con un manager, uno di quelli che ha un reddito considerevole, una casa in montagna e all’occorrenza anche al mare. E invece, chi si ritrovava come genero? Gomes do Santos . Un brasiliano, un clandestino che, a parer suo, voleva sposare la figlia solo per sistemare i propri inghippi burocratici, ottenere la cittadinanza e i relativi benefici.
Arrivò il giorno in cui Maria ebbe la brillantissima idea di portare in Italia, a Natale, in un piccolo paese del Sud, il Pilota. Arrivarono il ventuno di dicembre, sarebbero dovuti ripartire il tre gennaio. Voli Virgin express, compagnia low cost. Il piano fu rispettato solo da Maria, il Pilota abbandonò l’Italia molto prima, a causa di una futile discussione con Maria. La discussione fu soltanto un pretesto. Gomes do Santos era ormai stufo di Maria, dei genitori di Maria, dei fratelli di Maria, e aggiungerei anche del paese di Maria. Respirava una brutta aria, l’aria di chi sa di non essere ben accetto. Così, dopo soli tre giorni di permanenza aveva fatto le valigie ed era tornato a Bruxelles. Dopo la parentesi italiana, Gomes do Santos e Maria avevano deciso che per un periodo di tempo sarebbe stato meglio non vedersi, ognuno per la sua strada. Maria con il suo lavoro da manager, il Pilota con il suo lavoro da imprenditore. Nelle mattine invernali, vedevi arrivare il Pilota al Caffè Belga dall’alto del suo metro e sessanta, con sé aveva sempre una penna e una piccola valigetta. Era un tipo schietto, uno che dava del tu a chiunque, ordinava il suo caffè e ripartiva. Gli affari del Pilota, a sentire gli altri, andavano a gonfie vele. Addirittura in giro si diceva che con la sua impresa di pulizie oltre ad aver conquistato Bruxelles, si accingeva a invadere la città di Namur. Il business si era allargato e con esso, sia il numero degli introiti che quello dei dipendenti. Ora l’azienda ne contava ventisette. Come altre mattine, anche quella mattina il Pilota si recava a lavoro. Prese il solito caffè, salutò gli amici, comprò il giornale, il Globo, all’edicola più vicina e incominciò a sfogliarlo.
Arrivò nei pressi del pulmino Fiat, accese il motore, e ripartì per il suo consueto giro. Doveva prelevare otto operai e portarli allo stabile di Namur. Il punto di incontro per i primi quattro operai era fissato a Gare du Midi, il Pilota arrivò con dieci minuti d’anticipo, così, per uccidere il tempo, riprese la lettura del Globo.
Dopo dodici minuti arrivarono le prime operaie e il Pilota fece cenno alle donne di muoversi perché erano in ritardo. Gomes do Santos ripose via il Globo e riaccese il motore per prendere gli altri lavoratori. Il secondo punto di incontro, quello, per gli operai portoghesi, era alla stazione centrale. Aprì la porta scorrevole del furgoncino e li fece entrare. Quella mattina nel furgoncino bianco Fiat erano in otto. Lui, più sei donne, irregolari, e un ragazzo, anche lui clandestino. Namur-Bruxelles erano circa trenta chilometri che il pilota percorreva in cinquanta minuti parlando con i suoi operai. Arrivarono alle 8.45, scesero dal bus e i salariati iniziarono a sgobbare. Gomes do Santos si fermò a parlottare con l’amministratore che gli propose altri stabili da pulire. I prezzi del Pilota erano più che concorrenziali tanto il Pilota mica doveva pagare le tasse! La conversazione si concluse con una stretta di mano e due sorrisi smaglianti. Pensavano ai numerosi affari che avrebbero potuto realizzare. L’amministratore si mise alla guida della sua autovettura e ripartì per nuovi lidi, Gomes do Santos salì sul furgone, accese lo stereo e prese da un cassetto la merenda preparata il giorno prima. Si sistemò in posizione comoda. Alle 10.45 arrivarono i poliziotti belgi che misero in pausa forzata ogni lavoratore. Sequestrarono tutto, partirono dalle cose materiali e finirono con le emozioni. Quella mattina, la polizia distrusse il sogno del Pilota. Gli otto salariati e Gomes do Santos furono condotti in caserma. E così finì la permanenza del Pilota in Belgio.


Aniceto Fiorillo



Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.



Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.

martedì 11 settembre 2018

Marlene







L’autunno incominciava a sentirsi, le strade erano ricoperte da un manto di fogliame e bagnate da una pioggerellina fine, che, sebbene fastidiosa, non impediva di uscire. Erano due mesi che mi ero trasferito a Roma, abitavo tra la stazione Termini e il quartiere Monti. Alloggiavo in una pensione che si chiamava Marlene. Non era male, in camera avevo anche una piccola tv e da sotto si alzavano i profumi delle cucine dei pakistani che abitavano ai seminterrati delle vie vicine.  
Dalle mura sottili  della mia stanza  ascoltavo la voce accorata di una ragazza che verso le otto di sera ripeteva dei copioni, o almeno qualcosa che somigliasse a ciò. 
Una mattina ci incontrammo fuori  dalle camere, le dissi: “Cosa provi?”

Scusa se ti disturbo -  mi disse -  proviamo il Re Lear di Shakespeare, tra tre giorni abbiamo la prima” . 

Avvolse il capo in un foulard rosso, coprì gli occhi con dei grandi occhiali da sole e si allontanò.  Si chiamava Milù ed era veneta, di un piccolo paesino in provincia di Padova.  Io avevo trentadue anni e sognavo di diventare uno scrittore, tirando avanti con delle supplenze a scuola. Mi procurai il biglietto della prima e la andai a vedere. Ci conoscemmo, e poi facemmo l’amore a Marlene, e i nostri corpi intrecciati alle lenzuola allontanarono il freddo.  Talvolta andavo ad assistere alle prove, trascorrevo ore in platea, lei recitava e io la osservavo, avrei voluto averla solo per me, io e lei, e poi, scherzavamo sul teatro e sul viso quadrato della portiera di Marlene e ridevamo tanto; e dal giardino degli Aranci osservavamo Roma e i gabbiani che volavano nel cielo plumbeo, sperando nei nostri sogni.  E poi, le lunghe passeggiate autunnali sulla spiaggia di Lavinio, le corse, l’amore e i venti che muovevano gli alberi, la pioggia e il rifugio nella pineta, ascoltando il suono tamburellante del nubrifagio che accompagnava i nostri abbracci. L’autunno scomparve, venne il Natale e Milù partì per una tournée teatrale e non la vidi più; a volte, fermandomi, penso alla sua dolcezza e a Marlene.




Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.
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martedì 26 giugno 2018

Ramid







Conobbi Ramid in una tipica giornata belga, dove il grigio del cielo non avvolge solo
l’ambiente in cui viviamo, ma anche l’interno delle persone, il loro animo, e così trasforma le loro abitudini, i loro modi di essere. Anche quella giornata come altre mi ero recato al Caffè Belga; presi una cioccolata calda, e scambiai alcune chiacchiere con degli italiani. Erano le 10.30, quando al mio tavolo si sedettero Josè e Ramid. Ramid era con un piccolo bambino, di carnagione mulatta, sui cinque anni che aveva con sé un pallone. Josè ci presentò. Ramid era un somalo. Lui, come altri, era un illegale. Aveva iniziato a lavorare come cameriere, col tempo era riuscito a diventare cuoco presso un locale eritreo, sito a Avenue Plasky 181. Ramid, di corporatura gracile,  si presentò parlando in italiano e mi disse: "Ciao come stai?",  gli risposi con un sorriso.  Si trovava in Belgio da quattro anni: lavoro, lavoro, e tanta sofferenza lo avevano accompagnato. Il Belgio fu il punto di arrivo di un viaggio tortuoso che vide come tappe prima l’Italia e poi la Francia. Arrivò in Sicilia con una di quelle carrette del mare proveniente dalla Libia, raggiunse la città di Ancona in treno, durante il tragitto incontrò dei controllori ferroviari che furono alquanto benevoli con lui non chiamarono né la polizia né gli chiesero chi fosse, lo trattarono come una qualsiasi ombra africana. Una volta arrivato ad Ancona, Ramid si mise in contatto con alcuni trafficanti iraniani che gli promisero di farlo arrivare in Francia, nascosto in un camion merce che trasportava cocomeri. L’obiettivo era raggiungere la Francia e stabilirsi a Parigi.  Raggiunta la capitale francese avrebbe chiesto l’asilo politico come rifugiato. Tutti conoscevano la situazione politica somala. Lui era convinto, il governo francese avrebbe accettato la sua richiesta e in seguito avrebbe portato la sua famiglia. Dopo aver pagato il viaggio ai trafficanti iraniani, partì per la Francia in compagnia di un ragazzo iraniano, Saris che di anni ne aveva 19 ,  caratteri mediorientali, capelli corti e sguardo vivo, intelligente. La sua destinazione era Bordeaux ad aspettarlo vi era il fratello maggiore. Partirono di notte, imboccarono
l’autostrada, la prima fermata sarebbe stata Genova. Saris e Ramid viaggiarono in condizione non pietose, erano nascosti in un doppio strato in cui erano soliti viaggiare gli altri clandestini. Anche i conducenti furono molto gentili, entrambi italiani. Trascorsero un’intera settimana mangiando cocomeri e bevendo acqua minerale. Ebbero l’opportunità di conoscersi e di scambiarsi reciproche informazioni sulle loro destinazione e futuri progetti. Arrivati a Genova di mattina, i camionisti si fermarono per una breve pausa, mangiarono e si rilassarono mentre Ramid e Saris chiusi nel camion si cibavano di cocomeri rossi. Per i bisogni corporei usavano  un piccolo foro che funzionava  da bagno, e i loro bisogni corporali coprirono le strade per la disperazione degli operatori ecologici delle varie regioni italiane. Oramai mancava poco per arrivare al confine con la Francia, i due ce la avrebbero fatta. La notte dello stesso giorno il camion raggiunse la città di Ventimiglia.L’ indomani arrivarono a Lione che fu l’ultima fermata. I due scesero dal camion e si salutarono. Ramid proseguì per Parigi. Saris per Bordeaux. Il somalo percorse la tratta Lyone-Parigi in treno, chiuso nel bagno di servizio. Arrivò a Parigi, di sera, senza conoscere nessuno, arrivò come o peggio di un cane randagio bastonato. Senza un soldo in tasca, Ramid si aggirava per le strade parigine cercando ti trovare un qualsiasi lavoro. I luoghi frequentati erano associazioni caritatevoli che gli garantivano due pasti caldi al giorno e i parchi. I parchi parigini, di notte, diventavano delle vere e proprie colonie abitate da emigrati di ogni nazionalità: curdi, armeni, congolesi, afgani, iraniani. Si attrezzavano e costruivano delle vere tendopoli fatte di cartoni e di altri materiali arrabattati in giro. Erano centinaia che vagavano , anime in penitenza, i loro colori ormai erano un tutt’ uno con quelli delle notte parigina. In questa sorta di tendopoli, Ramid conobbe le prime persone. Cercò di capire quale fosse l’iter da seguire per presentare la domanda come rifugiato politico, alcuni iraniani gli dissero di essere cauto e di non farsi facili illusioni poiché la politica nei confronti degli emigrati era diventata abbastanza dura. I due iraniani si erano visti respingere la domanda perché non sussistevano le condizioni per essere considerati dei rifugiati. Ramid presentò la domanda come rifugiato, sarebbero trascorsi alcuni mesi prima di venire a conoscenza dell’esito. I mesi trascorsero in fretta tra piccoli lavoretti come muratore e notti in bianco nei parchi, a sognare e pensare alla sua famiglia in Africa. Ebbe la prima risposta che fu negativa. Non si scoraggiò e andò avanti per la sua strada. Degli afgani gli consigliarono di non perdere tempo in Francia e di porsi come obiettivo l’Inghilterra o il Belgio. Il Belgio e l’Inghilterra in quel periodo erano i paesi più propensi ad accettare le domande dei rifugiati, Ramid aveva due alternative, recarsi a Calais e da lì imbarcarsi per l’Inghilterra o andare in Belgio dove avrebbe potuto contare sull’appoggio di alcuni connazionali che da anni si erano stabiliti nella capitale belga. Ramid optò per la seconda opzione. Ancora una volta prese il treno e viaggiò di notte, destinazione Brussel.  Avendo messo da parte dei soldi, riuscì a comprare il biglietto e il viaggio fu tranquillo, più rilassante. I primi tempi in Belgio furono più favorevoli di quelli trascorsi in Francia, più confortevoli per lo meno aveva un tetto sotto cui stare e un lavoro da cameriere che gli permetteva di guadagnare, di condurre una vita più che dignitosa. Il problema era sempre lo stesso, riuscire ad avere lo status di rifugiato politico che gli avrebbe permesso di portare in Belgio la sua famiglia. Il problema diventava sempre più urgente, anche in Belgio la situazione si era capovolta, anche lì era diventato difficile ottenerlo. In Europa ormai prevaleva la linea di aiutare i disperati nelle loro terre e di conseguenza le autorità politiche nicchiavano nel rilasciare ogni sorta di documento che permettesse agli stranieri di creare delle radici in Europa.  Ramid decise di far partire sua moglie e suo figlio senza permessi, avrebbero seguito il suo stesso percorso: Italia e poi Belgio, e alla fine si sarebbero congiunti. 

Il somalo abitava in periferia, divideva il suo appartamento con altri emigrati, ma ancora per poco. Ramid aveva preso in affitto un appartamento in Ixselles per la sua famiglia che lo avrebbe raggiunto. La casa era da ristrutturare, ci sarebbero voluti una trentina di giorni.Il somalo non riusciva più a controllare l’emozioni,  parlava dell’arrivo del figlio e della moglie con tutti, tutti sapevano e tutti gli domandavano. Per ristrutturare casa aveva ingaggiato un operaio inglese specializzato in lavori in economia. Forse l’ingaggio di quel operaio fu dovuto più all’ impellente bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia che a reali necessità di ordine pratico. L’ appartamento era 60 metri distribuiti su un unico piano. Le stanze da letto erano due, una per la moglie e Ramid, l’altra per il piccolino, una cucina, un bagno. Il somalo con l’aiuto dell’operaio inglese aveva deciso di pitturare di giallo canarino la stanza del bambino, di rosa la loro stanza e di bianco le restanti pareti. Penso che l’inglese non abbia dimenticato quel periodo trascorso con Ramid. Fu davvero da esaurimento per lui. Ramid gli chiedeva mille cose e pretendeva dall’ inglese mille e uno risposte. Le domande erano sempre le stesse. “Inglese, secondo te, piaceranno queste lenzuola a mia moglie e questo gioco a mio figlio?” Domandava Ramid. E così che si andava avanti, comprava il consenso dell’inglese con alcune birre e un piatto di spaghetti con il pomodoro. Si lavorava fino a notte inoltrata, e spesso riattaccava al ristorante in un unico ciclo continuo da far invidia alle migliori fabbriche specializzate. Ciò non dispiaceva al somalo  che aveva trovato nell’ inglese sia un' aiuto manuale che un supporto morale. Divennero grandi amici, sgobbavano, si divertivano e uscivano quando potevano. Per lo più si riunivano al Caffè Belga dove consumavano pacchetti di sigarette e dozzine di Maes.



I clandestini arrivavano da tutti i posti, erano senegalesi, pakistani, etiopi, iraniani. Ognuno con una loro storia da raccontare. Arrivavano in Libia tra mille difficoltà, attraversando il deserto o il mare. Una volta arrivati in Libia, venivano nascosti in cantine anche per intere settimane. Si doveva aspettare il momento buono per salpare. Venivano ammassati come bestie, mangiavano pezzi di pane secco e bevevano acqua mezza salata. Arrivato il momento giusto, si partiva. Si erano imbarcati dalle coste libiche di Al Zuwara, di notte, erano diciotto su un barcone che massimo ne poteva contare otto. Aggrappati l’uno sull’altro, erano partiti. Avevano avuto in consegna una bussola, una piccola carta nautica e un bidone d’acqua, sempre mezzo salata, da 50 litri. Avevano salutato l’Africa e cercavano di abbracciare l’Italia. Per molti di loro l’Italia rappresentava un punto di transito per raggiungere il centro dell’Europa, per altri il loro obiettivo. Alcuni avevano dei parenti, delle mogli, altri nessuno, nemmeno una valigia. Per staccare il biglietto avevano dovuto sborsare 1500 euro, senza ricevere nessuna sicurezza. Mentre si allontanarono dalle coste africane, il silenzio si impadronì della barca. Gli sguardi dei diciotto disperati erano profondi, più comunicativi delle parole. I loro occhi erano rivolti al loro passato, alle coste africane, alla loro terra, partirono non sapendo se o quando sarebbero potuti ritornare. Partirono. Nella zattera, bianca e nera, a strisce, vi erano 18 persone di cui 3 bambini, 5 donne, 10 uomini. I diciotto erano di diverse nazionalità, otto erano somali, sei senegalesi, quattro ghanesi. Lo scafista era senegalese, marinaio nel suo paese, che in cambio della sua prestazione non aveva pagato il viaggio. Gli altri erano per lo più  impiegati come manovali nei settori dell’edilizia, mentre le donne lavoravano come casalinghe. La nottata e i primi tre giorni di navigazione trascorsero in relativa tranquillità. Non vi furono fatti degni di nota, se non i primi sguardi di amore tra Teris e Sara. Per alcuni giorni rimasero solo sguardi, Teris non ebbe la forza di sconfiggere la sua timidezza. Teris, 18 anni, corporatura rocciosa, sognava di diventare calciatore e di imitare il suo idolo Cannavaro. Ad aspettarlo in Italia vi era un cugino che abitava a Torino e aveva fatto fortuna con lo spaccio delle droghe leggere. Nei primi giorni italiani sarebbe stato suo ospite. Sara di anni ne aveva 21. Mora, dai lineamenti dolci. Con la morte dei genitori era rimasta sola. In Italia, Sara aveva un sorella sposata con un eritreo; la sorella, donna di servizio, il marito, muratore, abitavano a Brescia. Avevano una piccola bambina, nata da poco. Sara, nei primi tempi, si sarebbe occupata della nipote. Dopo tre giorni la fame e la stanchezza incominciarono ad aprire la porta alla disperazione; mentre i raggi del sole diventavano sempre più prepotenti e come frustate, scese dal cielo, colpivano i profughi. La bussola non dava segni di funzionamento, forse non li aveva mai dati. La benzina era terminata. Alcuni dei disperati incominciarono a consultare le carte nautiche, senza capirci nulla. Una donna, mulatta, tra i 30 e 35 anni, aveva in braccio un bambino sul  volto della signora era dipinta la paura di chi teme di essere in procinto di morire. La ragazza aveva posto sul capo del bambino un piccolo cappello per proteggerlo dal sole infernale, e di tanto in tanto gli bagnava le labbra con l’acqua salata del mare. Dalla partenza erano trascorsi quattro giorni. Il quinto stava per nascere. L’acqua era terminata, e con essa anche i viveri. I diciotto disperati, sotto le martellate di un sole inclemente, avevano perso l’orientamento. Usavano l’acqua del mare per bagnarsi sia la fronte che la bocca. Vi era un susseguirsi di voci tra i passeggeri della zattera in merito alla destinazione da seguire. Non si raggiungeva un accordo. Un ragazzo si alzò e prima di tuffarsi, disse: “Io raggiungo l’Italia a nuoto.” Di quel ragazzo non si ebbe più notizia. Tra la notte del quinto e del sesto giorno nella barca tutti erano terrorizzati. Piangevano, pregavano ed invocavano Dio. Verso le cinque del mattino videro in lontananza una piattaforma per l’estrazione del greggio. Dopo alcune ore di navigazione la raggiunsero. Erano tunisini. Gli diedero del pane, dell’acqua buona, della benzina per la barca e ripartirono. Al sesto giorno la ragazza con il bambino in braccio morì di dissenteria. Era la moglie di Ramid. Gli altri passeggeri a malincuore dovettero buttarla a mare, e a turno si occuparono del bambino, tenendolo in braccio. Il bambino era diventata l’unica fonte di gioia. Divenne il bene più prezioso, più prezioso delle loro disperate vite. Ormai dei diciotto ne erano rimasti tredici. La prima a morire fu la moglie di Ramid, dopo altre due donne e un ragazzo persero la vita. Morivano come mosche. Schiacciati, annientati.  

Il mare sempre piatto mentre il sole continuava nella sua azione distruttiva. Sulla zattera vi era solo il caos, nessuno sapeva che giorno fosse o quale fosse la loro destinazione. Gli svenimenti, le crisi, le urla erano il pane quotidiano masticato dai quindici disperati. Nello stesso tempo, il crederci accompagnava il loro viaggio.  I corpi scheletrici erano la testimonianza diretta della sofferenza a cui erano sottoposti. Tra le persone si comunicava con gli sguardi, non vi era la forza di parlare.  Il sole alto in cielo picchiava sempre di più. I quindici diventavano sempre più deboli. Durante i giorni di navigazione, nacquero delle amicizie, amicizie vere perché nate dalla sofferenza. Nacquero anche degli amori. Teris riuscì a sconfiggere la sua timidezza, e si avvicinò a Sara. I due incominciarono a scoprirsi. Entrambi somali. Lui carpentiere, lei casalinga. Entrambi in Somalia lasciavano tante delusioni. Avevano poco, ma insieme avrebbero potuto unire quel poco, e farlo diventare più grande. Arrivò la notte e con essa il vento, Taris coprì le spalle di Sara con la sua piccola giacca, densa di amore. Si strinsero le mani e aspettarono insieme la nascita di una nuova giornata di dolore. La loro forza si era raddoppiata. Avrebbero affrontato con maggior vigore la sofferenza. Quando si è disperati, si dice che ci si possa attaccare a tutti e a tutto e Sara decise di attaccarsi al telefonino, di chiamar sua sorella che abitava a Brescia. Il primo, il secondo, al terzo tentativo riuscì. Parlò con la sorella per alcuni istanti, pochi istanti che salvarono la sua vita e la vita degli altri. Dopo la telefonata Sara fece un lungo sospiro, poi le cadde il telefonino, e batté con la testa sul bordo della barca. Alcuni dei profughi si alzarono e cercarono di prestarle aiuto. La sorella telefonò alla polizia che fece il resto. In poco tempo fu contattata la guardia costiera. I disperati erano sfiniti e addirittura qualcuno aveva perso i sensi quando i soccorsi arrivarono. Furono condotti a Lampedusa. Arrivati a piedi nel vicino centro di polizia furono interrogati e identificati. Ramid guardava il figlio che giocava beatamente nel caffè belga, mentre mi parlava di ciò. Il sacrificio della moglie non era stato inutile. Ora quel bambino studia e cresce per le strade di Brussel.

Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa (Napoli) nel 1979, dopo la laurea in Lettere viaggia per l’Italia e per l’Europa, sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permettesse di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese, perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandavano in diamanti e che avevano deciso di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tentava di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce un video-noleggio-libri, naturalmente abusivo; finchè, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunse la Finanza che gli intimò di chiudere in blocco l’attività. Non si perse d’animo e con tanta voglia e molti denari scelse la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conobbe la solitudine, il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riportò a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.

Autore di Kilometro zero 
https://www.amazon.it/Kilometro-Zero-Aniceto-Fiorillo-ebook/dp/B01N8XRSM9

e dei suddetti Racconti disaccordati.
                                                                            

- La signora Nunzia racconta il Signore Antimo -

  Era il 1990 e si svolgevano i mondiali di calcio in Italia, e io ero innamorato degli azzurri. In quel periodo dormivo a casa di mia nonna...

Italia vs Albania