martedì 26 giugno 2018

Ramid







Conobbi Ramid in una tipica giornata belga, dove il grigio del cielo non avvolge solo
l’ambiente in cui viviamo, ma anche l’interno delle persone, il loro animo, e così trasforma le loro abitudini, i loro modi di essere. Anche quella giornata come altre mi ero recato al Caffè Belga; presi una cioccolata calda, e scambiai alcune chiacchiere con degli italiani. Erano le 10.30, quando al mio tavolo si sedettero Josè e Ramid. Ramid era con un piccolo bambino, di carnagione mulatta, sui cinque anni che aveva con sé un pallone. Josè ci presentò. Ramid era un somalo. Lui, come altri, era un illegale. Aveva iniziato a lavorare come cameriere, col tempo era riuscito a diventare cuoco presso un locale eritreo, sito a Avenue Plasky 181. Ramid, di corporatura gracile,  si presentò parlando in italiano e mi disse: "Ciao come stai?",  gli risposi con un sorriso.  Si trovava in Belgio da quattro anni: lavoro, lavoro, e tanta sofferenza lo avevano accompagnato. Il Belgio fu il punto di arrivo di un viaggio tortuoso che vide come tappe prima l’Italia e poi la Francia. Arrivò in Sicilia con una di quelle carrette del mare proveniente dalla Libia, raggiunse la città di Ancona in treno, durante il tragitto incontrò dei controllori ferroviari che furono alquanto benevoli con lui non chiamarono né la polizia né gli chiesero chi fosse, lo trattarono come una qualsiasi ombra africana. Una volta arrivato ad Ancona, Ramid si mise in contatto con alcuni trafficanti iraniani che gli promisero di farlo arrivare in Francia, nascosto in un camion merce che trasportava cocomeri. L’obiettivo era raggiungere la Francia e stabilirsi a Parigi.  Raggiunta la capitale francese avrebbe chiesto l’asilo politico come rifugiato. Tutti conoscevano la situazione politica somala. Lui era convinto, il governo francese avrebbe accettato la sua richiesta e in seguito avrebbe portato la sua famiglia. Dopo aver pagato il viaggio ai trafficanti iraniani, partì per la Francia in compagnia di un ragazzo iraniano, Saris che di anni ne aveva 19 ,  caratteri mediorientali, capelli corti e sguardo vivo, intelligente. La sua destinazione era Bordeaux ad aspettarlo vi era il fratello maggiore. Partirono di notte, imboccarono
l’autostrada, la prima fermata sarebbe stata Genova. Saris e Ramid viaggiarono in condizione non pietose, erano nascosti in un doppio strato in cui erano soliti viaggiare gli altri clandestini. Anche i conducenti furono molto gentili, entrambi italiani. Trascorsero un’intera settimana mangiando cocomeri e bevendo acqua minerale. Ebbero l’opportunità di conoscersi e di scambiarsi reciproche informazioni sulle loro destinazione e futuri progetti. Arrivati a Genova di mattina, i camionisti si fermarono per una breve pausa, mangiarono e si rilassarono mentre Ramid e Saris chiusi nel camion si cibavano di cocomeri rossi. Per i bisogni corporei usavano  un piccolo foro che funzionava  da bagno, e i loro bisogni corporali coprirono le strade per la disperazione degli operatori ecologici delle varie regioni italiane. Oramai mancava poco per arrivare al confine con la Francia, i due ce la avrebbero fatta. La notte dello stesso giorno il camion raggiunse la città di Ventimiglia.L’ indomani arrivarono a Lione che fu l’ultima fermata. I due scesero dal camion e si salutarono. Ramid proseguì per Parigi. Saris per Bordeaux. Il somalo percorse la tratta Lyone-Parigi in treno, chiuso nel bagno di servizio. Arrivò a Parigi, di sera, senza conoscere nessuno, arrivò come o peggio di un cane randagio bastonato. Senza un soldo in tasca, Ramid si aggirava per le strade parigine cercando ti trovare un qualsiasi lavoro. I luoghi frequentati erano associazioni caritatevoli che gli garantivano due pasti caldi al giorno e i parchi. I parchi parigini, di notte, diventavano delle vere e proprie colonie abitate da emigrati di ogni nazionalità: curdi, armeni, congolesi, afgani, iraniani. Si attrezzavano e costruivano delle vere tendopoli fatte di cartoni e di altri materiali arrabattati in giro. Erano centinaia che vagavano , anime in penitenza, i loro colori ormai erano un tutt’ uno con quelli delle notte parigina. In questa sorta di tendopoli, Ramid conobbe le prime persone. Cercò di capire quale fosse l’iter da seguire per presentare la domanda come rifugiato politico, alcuni iraniani gli dissero di essere cauto e di non farsi facili illusioni poiché la politica nei confronti degli emigrati era diventata abbastanza dura. I due iraniani si erano visti respingere la domanda perché non sussistevano le condizioni per essere considerati dei rifugiati. Ramid presentò la domanda come rifugiato, sarebbero trascorsi alcuni mesi prima di venire a conoscenza dell’esito. I mesi trascorsero in fretta tra piccoli lavoretti come muratore e notti in bianco nei parchi, a sognare e pensare alla sua famiglia in Africa. Ebbe la prima risposta che fu negativa. Non si scoraggiò e andò avanti per la sua strada. Degli afgani gli consigliarono di non perdere tempo in Francia e di porsi come obiettivo l’Inghilterra o il Belgio. Il Belgio e l’Inghilterra in quel periodo erano i paesi più propensi ad accettare le domande dei rifugiati, Ramid aveva due alternative, recarsi a Calais e da lì imbarcarsi per l’Inghilterra o andare in Belgio dove avrebbe potuto contare sull’appoggio di alcuni connazionali che da anni si erano stabiliti nella capitale belga. Ramid optò per la seconda opzione. Ancora una volta prese il treno e viaggiò di notte, destinazione Brussel.  Avendo messo da parte dei soldi, riuscì a comprare il biglietto e il viaggio fu tranquillo, più rilassante. I primi tempi in Belgio furono più favorevoli di quelli trascorsi in Francia, più confortevoli per lo meno aveva un tetto sotto cui stare e un lavoro da cameriere che gli permetteva di guadagnare, di condurre una vita più che dignitosa. Il problema era sempre lo stesso, riuscire ad avere lo status di rifugiato politico che gli avrebbe permesso di portare in Belgio la sua famiglia. Il problema diventava sempre più urgente, anche in Belgio la situazione si era capovolta, anche lì era diventato difficile ottenerlo. In Europa ormai prevaleva la linea di aiutare i disperati nelle loro terre e di conseguenza le autorità politiche nicchiavano nel rilasciare ogni sorta di documento che permettesse agli stranieri di creare delle radici in Europa.  Ramid decise di far partire sua moglie e suo figlio senza permessi, avrebbero seguito il suo stesso percorso: Italia e poi Belgio, e alla fine si sarebbero congiunti. 

Il somalo abitava in periferia, divideva il suo appartamento con altri emigrati, ma ancora per poco. Ramid aveva preso in affitto un appartamento in Ixselles per la sua famiglia che lo avrebbe raggiunto. La casa era da ristrutturare, ci sarebbero voluti una trentina di giorni.Il somalo non riusciva più a controllare l’emozioni,  parlava dell’arrivo del figlio e della moglie con tutti, tutti sapevano e tutti gli domandavano. Per ristrutturare casa aveva ingaggiato un operaio inglese specializzato in lavori in economia. Forse l’ingaggio di quel operaio fu dovuto più all’ impellente bisogno di condividere con qualcuno la sua gioia che a reali necessità di ordine pratico. L’ appartamento era 60 metri distribuiti su un unico piano. Le stanze da letto erano due, una per la moglie e Ramid, l’altra per il piccolino, una cucina, un bagno. Il somalo con l’aiuto dell’operaio inglese aveva deciso di pitturare di giallo canarino la stanza del bambino, di rosa la loro stanza e di bianco le restanti pareti. Penso che l’inglese non abbia dimenticato quel periodo trascorso con Ramid. Fu davvero da esaurimento per lui. Ramid gli chiedeva mille cose e pretendeva dall’ inglese mille e uno risposte. Le domande erano sempre le stesse. “Inglese, secondo te, piaceranno queste lenzuola a mia moglie e questo gioco a mio figlio?” Domandava Ramid. E così che si andava avanti, comprava il consenso dell’inglese con alcune birre e un piatto di spaghetti con il pomodoro. Si lavorava fino a notte inoltrata, e spesso riattaccava al ristorante in un unico ciclo continuo da far invidia alle migliori fabbriche specializzate. Ciò non dispiaceva al somalo  che aveva trovato nell’ inglese sia un' aiuto manuale che un supporto morale. Divennero grandi amici, sgobbavano, si divertivano e uscivano quando potevano. Per lo più si riunivano al Caffè Belga dove consumavano pacchetti di sigarette e dozzine di Maes.



I clandestini arrivavano da tutti i posti, erano senegalesi, pakistani, etiopi, iraniani. Ognuno con una loro storia da raccontare. Arrivavano in Libia tra mille difficoltà, attraversando il deserto o il mare. Una volta arrivati in Libia, venivano nascosti in cantine anche per intere settimane. Si doveva aspettare il momento buono per salpare. Venivano ammassati come bestie, mangiavano pezzi di pane secco e bevevano acqua mezza salata. Arrivato il momento giusto, si partiva. Si erano imbarcati dalle coste libiche di Al Zuwara, di notte, erano diciotto su un barcone che massimo ne poteva contare otto. Aggrappati l’uno sull’altro, erano partiti. Avevano avuto in consegna una bussola, una piccola carta nautica e un bidone d’acqua, sempre mezzo salata, da 50 litri. Avevano salutato l’Africa e cercavano di abbracciare l’Italia. Per molti di loro l’Italia rappresentava un punto di transito per raggiungere il centro dell’Europa, per altri il loro obiettivo. Alcuni avevano dei parenti, delle mogli, altri nessuno, nemmeno una valigia. Per staccare il biglietto avevano dovuto sborsare 1500 euro, senza ricevere nessuna sicurezza. Mentre si allontanarono dalle coste africane, il silenzio si impadronì della barca. Gli sguardi dei diciotto disperati erano profondi, più comunicativi delle parole. I loro occhi erano rivolti al loro passato, alle coste africane, alla loro terra, partirono non sapendo se o quando sarebbero potuti ritornare. Partirono. Nella zattera, bianca e nera, a strisce, vi erano 18 persone di cui 3 bambini, 5 donne, 10 uomini. I diciotto erano di diverse nazionalità, otto erano somali, sei senegalesi, quattro ghanesi. Lo scafista era senegalese, marinaio nel suo paese, che in cambio della sua prestazione non aveva pagato il viaggio. Gli altri erano per lo più  impiegati come manovali nei settori dell’edilizia, mentre le donne lavoravano come casalinghe. La nottata e i primi tre giorni di navigazione trascorsero in relativa tranquillità. Non vi furono fatti degni di nota, se non i primi sguardi di amore tra Teris e Sara. Per alcuni giorni rimasero solo sguardi, Teris non ebbe la forza di sconfiggere la sua timidezza. Teris, 18 anni, corporatura rocciosa, sognava di diventare calciatore e di imitare il suo idolo Cannavaro. Ad aspettarlo in Italia vi era un cugino che abitava a Torino e aveva fatto fortuna con lo spaccio delle droghe leggere. Nei primi giorni italiani sarebbe stato suo ospite. Sara di anni ne aveva 21. Mora, dai lineamenti dolci. Con la morte dei genitori era rimasta sola. In Italia, Sara aveva un sorella sposata con un eritreo; la sorella, donna di servizio, il marito, muratore, abitavano a Brescia. Avevano una piccola bambina, nata da poco. Sara, nei primi tempi, si sarebbe occupata della nipote. Dopo tre giorni la fame e la stanchezza incominciarono ad aprire la porta alla disperazione; mentre i raggi del sole diventavano sempre più prepotenti e come frustate, scese dal cielo, colpivano i profughi. La bussola non dava segni di funzionamento, forse non li aveva mai dati. La benzina era terminata. Alcuni dei disperati incominciarono a consultare le carte nautiche, senza capirci nulla. Una donna, mulatta, tra i 30 e 35 anni, aveva in braccio un bambino sul  volto della signora era dipinta la paura di chi teme di essere in procinto di morire. La ragazza aveva posto sul capo del bambino un piccolo cappello per proteggerlo dal sole infernale, e di tanto in tanto gli bagnava le labbra con l’acqua salata del mare. Dalla partenza erano trascorsi quattro giorni. Il quinto stava per nascere. L’acqua era terminata, e con essa anche i viveri. I diciotto disperati, sotto le martellate di un sole inclemente, avevano perso l’orientamento. Usavano l’acqua del mare per bagnarsi sia la fronte che la bocca. Vi era un susseguirsi di voci tra i passeggeri della zattera in merito alla destinazione da seguire. Non si raggiungeva un accordo. Un ragazzo si alzò e prima di tuffarsi, disse: “Io raggiungo l’Italia a nuoto.” Di quel ragazzo non si ebbe più notizia. Tra la notte del quinto e del sesto giorno nella barca tutti erano terrorizzati. Piangevano, pregavano ed invocavano Dio. Verso le cinque del mattino videro in lontananza una piattaforma per l’estrazione del greggio. Dopo alcune ore di navigazione la raggiunsero. Erano tunisini. Gli diedero del pane, dell’acqua buona, della benzina per la barca e ripartirono. Al sesto giorno la ragazza con il bambino in braccio morì di dissenteria. Era la moglie di Ramid. Gli altri passeggeri a malincuore dovettero buttarla a mare, e a turno si occuparono del bambino, tenendolo in braccio. Il bambino era diventata l’unica fonte di gioia. Divenne il bene più prezioso, più prezioso delle loro disperate vite. Ormai dei diciotto ne erano rimasti tredici. La prima a morire fu la moglie di Ramid, dopo altre due donne e un ragazzo persero la vita. Morivano come mosche. Schiacciati, annientati.  

Il mare sempre piatto mentre il sole continuava nella sua azione distruttiva. Sulla zattera vi era solo il caos, nessuno sapeva che giorno fosse o quale fosse la loro destinazione. Gli svenimenti, le crisi, le urla erano il pane quotidiano masticato dai quindici disperati. Nello stesso tempo, il crederci accompagnava il loro viaggio.  I corpi scheletrici erano la testimonianza diretta della sofferenza a cui erano sottoposti. Tra le persone si comunicava con gli sguardi, non vi era la forza di parlare.  Il sole alto in cielo picchiava sempre di più. I quindici diventavano sempre più deboli. Durante i giorni di navigazione, nacquero delle amicizie, amicizie vere perché nate dalla sofferenza. Nacquero anche degli amori. Teris riuscì a sconfiggere la sua timidezza, e si avvicinò a Sara. I due incominciarono a scoprirsi. Entrambi somali. Lui carpentiere, lei casalinga. Entrambi in Somalia lasciavano tante delusioni. Avevano poco, ma insieme avrebbero potuto unire quel poco, e farlo diventare più grande. Arrivò la notte e con essa il vento, Taris coprì le spalle di Sara con la sua piccola giacca, densa di amore. Si strinsero le mani e aspettarono insieme la nascita di una nuova giornata di dolore. La loro forza si era raddoppiata. Avrebbero affrontato con maggior vigore la sofferenza. Quando si è disperati, si dice che ci si possa attaccare a tutti e a tutto e Sara decise di attaccarsi al telefonino, di chiamar sua sorella che abitava a Brescia. Il primo, il secondo, al terzo tentativo riuscì. Parlò con la sorella per alcuni istanti, pochi istanti che salvarono la sua vita e la vita degli altri. Dopo la telefonata Sara fece un lungo sospiro, poi le cadde il telefonino, e batté con la testa sul bordo della barca. Alcuni dei profughi si alzarono e cercarono di prestarle aiuto. La sorella telefonò alla polizia che fece il resto. In poco tempo fu contattata la guardia costiera. I disperati erano sfiniti e addirittura qualcuno aveva perso i sensi quando i soccorsi arrivarono. Furono condotti a Lampedusa. Arrivati a piedi nel vicino centro di polizia furono interrogati e identificati. Ramid guardava il figlio che giocava beatamente nel caffè belga, mentre mi parlava di ciò. Il sacrificio della moglie non era stato inutile. Ora quel bambino studia e cresce per le strade di Brussel.

Aniceto Fiorillo


Nato a Cesa (Napoli) nel 1979, dopo la laurea in Lettere viaggia per l’Italia e per l’Europa, sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permettesse di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese, perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandavano in diamanti e che avevano deciso di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tentava di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce un video-noleggio-libri, naturalmente abusivo; finchè, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunse la Finanza che gli intimò di chiudere in blocco l’attività. Non si perse d’animo e con tanta voglia e molti denari scelse la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conobbe la solitudine, il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riportò a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.

Autore di Kilometro zero 
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e dei suddetti Racconti disaccordati.
                                                                            

- La signora Nunzia racconta il Signore Antimo -

  Era il 1990 e si svolgevano i mondiali di calcio in Italia, e io ero innamorato degli azzurri. In quel periodo dormivo a casa di mia nonna...

Italia vs Albania