L’arsura
era alta, e il suono delle cicale costante come le lamentele della sora Maria
che gestiva il BarGarb con l'aiuto di Lin Gin sulla circonvallazione Ostiense, a cinquanta
metri e poi tutto a sinistra per metro Garbatella. Era una mattina di luglio, e
il caldo traboccava anche dai condizionatori della Mitsubishi.
“Annarì,
cosa? Ma si sapeva! Quello è un pezzo grosso della Fao, se la ingroppava da
tempo!” disse l’uomo.
Era
basso, indossava un bermuda grigio e una camicia a mezze maniche, di cotone
scadente, e avrebbe toccato a breve il sessantaseiesimo anno di età.
“Come
dici? Angioletto? Lassamo perde’. Mi ha svegliato
alle 6.00, già non avevo dormito per il caldo e sai che me voleva di’? Che
aveva superato il livello 3 di Assassin Creed, un gioco alla play station!”
Parlava
al telefono, con voce rotta dalle rotture della vita quotidiana, seduto fuori
dal Bar della sora Maria mentre sulla circonvallazione il traffico procedeva
in maniera regolare.
“Quello
me sta a ammazzà , nun je la faccio più.
So’ diventato suo prigioniero! Tu te ne sei andata in montagna! E te sei
liberata!”
Frattanto il suo cappellino di paglia si abbassava sul viso smunto e mal rasato,
coprendogli la fronte, ma non l’occhio sinistro che pesantemente tendeva allo
strabismo.
“’Sti quattro giorni che me rimangono, li vojo
vive’ come Dio comanna, in pratica, Annarì, senza rotture di cazzo. A settembre,
con questo dobbiamo fa’ qualcosa! Eccolo, sta a arriva’. Ti lascio, nun me vojo
fa vede’ (vedere)!”
E
repentinamente nascose il telefono nella tasca destra del suo bermuda.
Angioletto
era un ragazzo alto come un palo della luce e largo come una porta di calcio,
aveva 17 anni, ma ne dimostrava almeno 25. Vestiva un completo dei Golden
State Warriors, e portava a tracolla un marsupio nero della Zeven. Si sedette,
avvolto da un sudore pregnante.
“A
papà, che te sei magnato?” disse l’Angioletto.
“Un
cornetto e un succo.”
“‘Mo
chiamo er cinese e je dico de portamme du’ maritozzi (dolce romano), con
cioccolata bianca e nera. Un succo de frutta e un cappuccino.”
“Ammazza…
Me cojoni… nun te li fa’ porta’, Angiole".
“A
papà, c’ho ‘na fame”.
C’erano
tre tavolini e nove sedie, e Lin Gin, cinese della città di Shengen, girava per
i tavoli, arrecando un servizio cortese e preciso agli avventori, mentre la
sora Maria serviva al bancone.
“Ahó,
Gin tonic! Vieni qua e portame un po’ de cose!”
“Ti
avere detto che mio nome non è Gin Tonic, è Lin Gin” con un accento in cui
tutte le “r” si trasformavano in l
“Ahó,
sempre du’ maritozzi me devi portà ! Con un succo, e un cappuccino, con molto
cacao” e nel momento in cui lo diceva, improvvisava, da seduto, un balletto rap.
E
Lin Gin si allontanava, borbottando qualcosa nella sua lingua nativa.
“A
papà, hai visto mamma se ne è annata in montagna! Quella c’ha lasciato, te lo
dice l’Angioletto”.
“Doveva
annà dalla sorella!” disse il padre.
“A papà, se ne dovemo annà (andare) ad Anzio.
Quattro giorni, pensione completa cucina mediterranea, il cuoco è di Sorrento”.
Il
padre lo ascoltava in silenzio, muovendo in continuazione l’occhio sinistro che
tendeva sempre di più allo strabismo acuto.
“A
papà, se magna che è ‘na favola! …me devi solo da’ ‘a carta de
credito!”
All’improvviso
sulla circonvallazione, proprio adiacente al bar, si arrestò un Suv nero, da
cui uscirono due tipi. Alti, calvi, e parecchio incazzati.
“Ti
chiami Angioletto” gli disse il più alto, mentre il basso stava leggermente
indietro e in silenzio.
Con
un sì convinto gli rispose Angioletto.
“Bravo”
gli rispose il tipo e gli diede un destro a mano aperta.
E
il botto fece girare, di scatto, i cinque vecchietti che erano seduti fuori dal
bar, mentre parlavano di Naiggolan e del suo nuovo contratto. E il viso di
Angioletto ruotò, in senso orario, di 180 gradi.
“E
mo’, vieni con noi” disse il tipo.
“E
perché?”
“Perché,
sei uno stronzo.”
E
con la mano destra, sempre aperta, gli fece saltare l’altra gota, quella
sinistra.
“E
questo chi è?”
“È
mi’ padre”.
“Viene
anche lui”.
Erano in uno stanzino, seminterrato, di
quaranta metri quadri, e da una piccola finestrina entrava un filo di luce,
molto fioco. Si ascoltava Julio Iglesias, “Baillando.”
“E
allora, voi parla’? (parlare)”
Il
volto di Angioletto era tumefatto
“Ma
che te devo dì?” disse Angioletto.
“Io
‘sta Arianna nun la conosco. Nun l’ho mai vista!”
Il
più alto aveva preso in cura Angioletto, mentre il più basso, a buon ritmo, e
con grande perizia, ballava, e cantava il pezzo di Iglesias, dopo aver
preparato un buon caffè.
“Come
nun la conosci, che la facevi batte’ alle Terme di Caracalla! E lo sai chi è
Arianna? È la figlia der Ghepardo, e Ghepardo è parecchio incazzato, e dice che
‘sta (questa) situazione si deve risolve’
solo cor sangue. E cor sangue tuo!”
“A
papà, li vedi questi?”
“Angioletto,
tieni duro” gli rispose il padre.
“Brutto
sacco de merda” gli disse il tipo, e nel mentre gli mollava un dritto sul viso, nello stesso tempo, lentamente, la sedia si
ribaltava e l’Angioletto, con un movimento strano delle natiche, sfondava il
pantalone, e si schiantava con il viso a terra e con le chiappe, senza mutande,
proprio di fronte il volto del suo persecutore.
“Che
schifo!” gridò il suo aguzzino.
“Me
so’ proprio scocciato, prendiamo ‘na tenaglia,
gli tolgo le unghie del piede, una a una.”
“No
‘a tenaglia, no!” gridava l’Angioletto.
E
mentre si allontanava per prendere la tenaglia, gli diceva: “E quanto ci
guadagnavi?”
“Ma
che stai a dì?” rispose l’Angioletto.
“Ma
come che sto a dì, ti vantavi anche di avere le mignotte più fresche di Roma
sud! E mo’ che fai, te rinneghi tutto? Ma che omo(uomo) sei?”
“Ma
quali mignotte, nun l’ho mai viste”.
Il padre sorseggiava un caffe, e di tanto in tanto diceva: “Ah regà, non
fategli troppo male” e Despacito copriva le urla e i pianti di Angioletto.
Si
sentì lo squillo del cellulare, il ballerino abbassò il volume dell’impianto
stereo, e rispose.
“L’avete
preso? E ‘sti due? Nun so’ loro? Ho capito...”
“Abbiamo
sbagliato. Somigliava al panzone. Ma nun so’ loro.”
“L’ho
sempre pensato, anvedi che viso da coglione si ritrova Angioletto” disse il suo aguzzino.
“Adesso
se ne dovemo anna’, perché er Ghepardo dice che ce dobbiamo vede’ tra un quarto
d’ora a Laurentina - disse il ballerino - e questi li lasciamo qua?”
“Tanto
mica parlano! Ahó, le vedete ‘ste facce? Be, mo’ ve le dovete dimentica’. È
chiaro?” disse l’aguzzino.
“E
chi v’ha visto mai” rispose il padre dell’Angioletto.
Dopo
tre giorni e con qualche centinaio di lividi mancanti, l’Angioletto e il padre
accompagnati da due trolley di color bianco si dirigevano verso metro Garbatella per prendere il treno in
direzione Anzio.
Arrivarono
a Marechiaro verso le 12. Il sole era alto e picchiava forte. I due si
avviarono per la discesa che era coperta dall’ombra dei giganteschi pini
marini.
Ormai,
erano trascorse ore e la canicola diventava sempre più asfissiante.
“A
papà, vieni che lo troviamo!”
“Angiolè,
ma che voi trova’! Stamo a gira’ da tre ore!”
Erano
seduti su un masso di cemento, e di fronte avevano il mare di Anzio, avvolto
dalla bonaccia di fine Luglio.
“Te
sei fatto frega, nun ce sta nessuna cucina mediterranea... A via dei Gerani 345
c’è soltanto ‘na mignotta nera, e un tipo che se la vuole ingroppa.Sto Hotel
Mediterraneo, nemmeno l’ombra” e dopo aver detto ciò, si alzò e si diresse
verso la stazione ferroviaria.
“Angiole’,
sei proprio ‘na’marezza! Vedi ‘n’attimo a che ora passa il prossimo treno pe’
Roma.”
Anche
l’Angioletto si alzò e si mise sulla scia del padre.
“E
se facciamo in tempo, ce magnamo ‘na carbonara dar Sor Remo” - disse il padre -
“almeno sarvamo quarcosa.”
I due si avviarono e nel frattempo Angioletto continuava a farfugliare altre vaccate.
Aniceto Fiorillo
Nato a Cesa nel 1979, dopo la
laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per
piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli
permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e
la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il
francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del
cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di
Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in
diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a
ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex
bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a
Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi
una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo
altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria,
naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte
vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco
l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti
denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma
conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo
riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al
Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.