domenica 10 marzo 2019

Rafat









Rafat aveva circa quaranta anni, musulmano non praticante e al Caffè belga conosceva un po’ tutti. Si faceva chiamare il Senatur di Ixselles per i suoi numerosi anni trascorsi da emigrante in territorio belga. Era arrivato dal Bangladesh nel lontano 1989, con la speranza di laurearsi in legge presso l’università di Leuven ma la speranza presto si trasformò in pura illusione e i libri furono sostituiti da grossi bicchieroni di Birra Maes. Nei giorni lavorativi il Caffè Belga, in Piazza Flagey, era frequentato da chi cercava lavoro o da chi sfruttava lo chaumage messo a disposizione dal generoso e assistenziale stato belga. Vi erano i bengalesi con i loro ristoranti, i polacchi con le loro imprese di costruzioni, gli italiani con le loro lauree e gli spagnoli, non mi ricordo bene con che cosa ma c'erano anche loro!


Verso le dodici (a.m) si presentò Rafat, accompagnato da una figura amica, si sedettero. Rafat non era alto, di carnagione olivastra, da lontano mi fece segno di accomodarmi al suo tavolo e andai. Ordinarono tre Maes, due per loro e una per me. All’inizio della mia permanenza in Belgio il problema principale che dovetti affrontare fu quello della comunicazione, del francese non avevo la più pallida idea e il mio inglese era davvero bad. Con il Senatur, più o meno, utilizzando il mio cattivo inglese riuscivo ad avere uno scambio di idee che mi portò a capire che quella figura amica era Jose Ina Blanco, spagnolo trapiantato in Belgio da oltre venti anni.

Lo spagnolo che aveva una forte somiglianza con Homer Simpson, portava degli occhialetti alla Gramsci, ed era sposato con una belga. Mi raccontò che la sua donna era un'insegnante di spagnolo, e altro!

Sono un imprenditore edile, il mio obiettivo, fare più soldi dei polacchi, quelli fanno soldi a buttare con l'imprese di costruzioni - deglutiva un attimo e riattaccava - e che sono meglio di me? - ri-tracannava la sua Maes - non sono meglio di me!” concluse lo spagnolo.



Antimo, un nostro comune amico, italiano, aveva comprato un piccolo appartamentino a Montgomery, e aveva affidato i lavori a Jose; passati i primi trenta cinque gironi, l'italiano nel trilocale aveva trovato solo macerie: l’impianto elettrico non funzionante, il parquet rialzato; una baraonda e il caro Jose in breve tempo fu sollevato dall’incarico.

Oltre a esser un imprenditore edile di ampie prospettive, Blanco amava bere Maes, nonché perdere tempo al Caffè Belga ed essere presente ad ogni festa. Le feste di Brussels erano tra gli eventi più carini che la città potesse offrire, se eri fortunato e avevi i giusti agganci potevi festeggiare ogni giorno della settimana, praticamente io, Rafat e Jose eravamo sempre impegnati. Il lunedì si andava all'Heysel dove era folta la comunità bengalese, le loro feste si contendevano con quelle dei brasiliani la palma della più bella. I festini bengalesi erano strutturati nel modo seguente: l’apertura era riservata a un anziano della comunità e ciò denota come la bengalese fosse una società di tipo patriarcale. Durante il discorso dell’anziano regnava un silenzio tombale, interrotto solo da Rafat che diffondeva volantini illustranti le attività culturali, gli obiettivi che la comunità si impegnava a raggiungere. Il Senatur era orgogliosissimo di stare tra la sua gente e di occuparsi della difesa dei diritti dei bengalesi in Belgio. Alla fine del discorso si aprivano le danze e di solito andava si avanti fino alle tre del mattino anche se gli irriducibili ed io, Jose, Rafat ne facevamo parte, duravamo come pile Duracel fino alle cinque, tanto il giorno seguente, massimo, si andava all'ufficio per firmare lo chaumage! In uno di questi festini mentre ballavo con Rashida, una ragazza della regione di Dacca, bella e abbondante di fianchi, si avvicinò il Senatur e mi disse: “Aniceto, mi candido alle elezioni comunali!”

Gli risposi: “Quello che vuoi!” e ripresi ad abbracciare la mia bengalese.


Assorbita la serata e la relativa sbornia, mi resi conto che davvero si sarebbe candidato alle elezioni comunali con Life che era nato nel lontano 1996 per difendere i diritti dei Bengalesi in Belgio, anche se sotto la regia di Rafat, il partito aveva tentato di allargare i suoi orizzonti, offrendo assistenza a tutti gli emigranti, senza nessuna distinzione di continente, di colori e di regolarità.

Polacchi, italiani, spagnoli, norvegesi, persone di ogni dove” era l’apertura del comizio elettorale.

Il Senatur di Ixselles, tra il serio e il faceto, aveva organizzato anche un piano marketing, così sintetizzabile: quattrocento voti, il numero sufficiente per entrare nell’amministrazione comunale di Ixselles; mentre il programma politico prevedeva aumento del 15% del vitalizio di disoccupazione per ogni emigrante regolarizzato. Secondo punto, diminuzione del 20% del costo degli asili nidi. Infine, il fiore all’occhiello del programma: provvedere al pagamento di duemila euro alle famiglie per ogni bambino messo al mondo.


La base logistica delle riunioni fu la struttura polivalente all'Heysel che finì d'essere polivalente per diventare esclusivamente comitato politico pro Rafat. Lì erano preparati i discorsi, i piani d’azione, il materiale propagandistico. Con il tempo le numerose feste furono sostituite da numerosi comizi che si svolgevano a Ixselles, ed erano diretti ai numerosi stranieri. Durante il periodo pre-elezioni decise di smettere di bere, andava in giro con il vestito elegante, e con ognuno si spendeva nell’illustrare i suoi progetti. Rafat pensava che tutti gli fossero amici, lui baciava e salutava tutti ma la realtà è una cosa estremamente differente. Venne il giorno delle votazioni, e il Senatur divenne più nero del solito. Esito delle votazioni: Rafat 38 voti.

Non cambiò molto nella vita di Rafat, ricominciò solo a bere. Tra feste, cene e comizi elettorali, guadagnai sempre di più la fiducia di Rafat che incominciò a spogliarsi delle sua intimità. Il Senatur era sposato con una donna belga, in molti dicevano che quel suo matrimonio appartenesse a quel genere di unione in cui, io, sposandomi ottengo la cittadinanza belga e tutti i diritti connessi e tu, donna, ottieni un marito per passare il resto della tua vita. Non so se per Rafat fu così.

Un giorno, Rafat mi pregò di seguirlo perché voleva presentarmi la sua famiglia. All’inizio io esitai ma lui insistette così tanto che fui costretto a cedere. Il tragitto non fu lungo, ci vollero dieci minuti per raggiungere Rue de Castrò. Il palazzo dove abitava Rafat non prometteva niente di buono, anzi. Salimmo le scale, la confusione era totale: bici in disuso, pacchi, giornali e un fetore da far vomitare un maiale. Dopo aver attraversato quella sorta di labirinto, giungemmo al terzo piano: si sentiva echeggiare un'accattivante melodia di qualche compositore di cui, a causa delle mie scarse nozioni musicali, non vi saprei dire il nome. Entrammo nella stanza di ingresso che contemporaneamente era sala da pranzo + salotto, un unico ambiente barocco. Entrato nell’appartamento mi trovai di fronte  un letto-matrimoniale-divano che era incastrato sotto un armadio, sul lato sinistro vi erano mille duecentocinquanta cose posizionate senza un ordine ben definito e un balcone che affacciava su Piazza Flagey.

La prima persona che vidi fu Cristofer, un ragazzo dagli atteggiamenti effeminati che preparava un'insalatina. Era alto, e con i capelli sparati verso l'alto e poi i miei occhi si appoggiarono su Nenè, settata anni, truccata peggio di una ragazzina di sedici e portava due orecchini talmente pesanti che rendevano i suoi orecchi simili a un elastico che prendeva una forma diversa a secondo dei pesi a cui era sottoposto, infine, Benedette che era la moglie belga di Rafat; ad occhio avrebbe potuto avere circa 50 anni portati mali, e due occhiali spessi con capelli lunghi e sporchi. Quella atmosfera di quiete, aleggiante nell’appartamento, fu di colpo squarciata dal grido di Benedette che in preda a un attacco di ira si scagliò contro Rafat, reo di essere arrivato in ritardo alla cena della domenica. L’ attacco non si limitò alle grida ma fu accompagnato da violenti schiaffi e sputi, Rafat colpito nella dignità, si sedette e non seppe trattenere le lacrime; si rivolse a Nenè che si faceva compagnia con una bottiglia di vino rosso, e le disse, “la vedi come si comporta?”, la vecchietta chinò la testa come segno di assenso e lo invitò a bere mentre Benedetta continuava nelle sue performances di musiche e di insulti.


Dopo la cena gustai con Rafat un vero espresso al Bar Sicilia, poco lontano da Piazza Flagey. Lì conobbi la doppia vita del bengalese. Il motivo per cui Benedette si infuriò non fu tanto determinato dal fatto che Rafat fosse arrivato in ritardo alla cena della domenica ma era dovuto all’imminente viaggio del Senatur in Bangladesh. Sarebbe dovuto ritornare a casa, lì aveva due bambine: mi mostrò le loro foto e nei loro occhi si intravedeva la stessa gioia che Rafat possedeva nei suoi. Rafat era il figlio di un politico molto influente, il padre era stato per molti anni governatore della regione di Dacca ma la stabilità economica e politica di quel paese era ed è un optional, guerre fratricide erano all’ordine del giorno, e Rafat, entrato nell’occhio del ciclone di alcuni rivoluzionari, causa la sua veloce ascesa politica, fu costretto ad abbandonare la sua vita per trasferirsi in Belgio. Benedetta sapeva tutto. Benedette si era sentita ferita nel suo orgoglio di donna che era costretta a dividere il suo amore con un’altra, con la paura di perderlo per sempre. Sapeva che nel cuore del Senatur vi era il suo mondo, le sue due bambine, il suo Bangladesh e a volte non riusciva proprio ad accettarlo. Ci vollero sette mesi per rivedere il Senatur in Belgio.


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Arrivato in Bangladesh, gli dissero che avrebbe dovuto recarsi in ospedale, Suami, la figlia più piccola, era stata ferita in un conflitto a fuoco, in un insulso conflitto che ogni giorno anima le strade del Bangladesh. Lì trovò la moglie, l'altra bambina e il restante della famiglia. Era stata colpita da due colpi di arma da fuoco. I medici sentenziarono che sarebbe vissuta dieci giorni. Durante quei giorni non mancarono le discussioni tra Rafat e sua moglie. La moglie lo accusava di essersi dimenticato di lei, delle sue figlie, del suo mondo. Rafat accusava i colpi, ormai era diventato un abile incassatore, lasciò perdere, e si concentrò solo sulla piccola. Suami e Rafat erano separati da un vetro: non poteva toccarla, poteva solo vederla. Il Senatur non toccò né cibo e né acqua, non parlò con nessuno. In cuor suo si sentiva colpevole, di non aver potuto vedere la figlia crescere, di non averla potuta salvare. Suami morì al nono giorno. Era stata ammazzata, durante un giorno normale, in una strada normale, mentre si recava in una scuola normale, ma la normalità non le apparteneva.


Quando rividi Rafat in Belgio,  ritrovai una persona  consunta dal dolore. I suoi occhi che, un tempo, diffondevano gioia, ora trasmettevano una ferocia tristezza. Ci rincontrammo al Caffè belga, si sedette e mi raccontò del suo viaggio in Bangladesh. Mi raccontò di aver diviso l’eredità paterna con i fratelli, e che a lui era toccata una bella fetta tanto da poter vivere di rendita! All’improvviso arrestò le sue parole, si fermò come se fosse stordito: alzò la testa, mi guardò negli occhi e decise di raccontare ciò che, poco anzi, ho scritto. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Mesi dopo, venni a sapere che Rafat si era impiccato nella sede del partito Life, dopo essersi ubriacato di Maes.


Nato a Cesa nel 1979, dopo la laurea in Lettere, viaggia per l’Italia e per l’Europa sia per piacere ma soprattutto alla ricerca di un qualsiasi lavoro che gli permetta di scrivere senza pensieri: a Brussel, incontra il Pilota e la sua comunità di brasiliani belgi, imparando l’inglese e il francese perché vuol sentirsi cittadino europeo ma il grigio del cielo belga lo rende triste e scappa verso il mare dell’isola di Malta. Qui si imbatte in una dozzina di russi che contrabbandano in diamanti e che decidono di scassarlo (picchiare una persona fino a ridurlo in fin di vita), e mentre tenta di sfuggire agli ex bolscevichi, incontra una bellissima sudtirolese che lo conduce a Bolzano dove si impegna nell’insegnamento e nel cercare di farsi una famiglia con relativa prole. Ma il Signore per lui ha in serbo altri piani! Ritorna a Napoli dove gestisce una libreria, naturalmente abusiva; finché, un giorno, di inverno, e di forte vento, non giunge la Finanza che gli intima di chiudere in blocco l’attività. Non si perde d’animo e con tanta voglia e molti denari sceglie la città di Roma come sua nuova sposa. Qui a Roma conosce la solitudine,il lavoro, l’amore, e poi, il vento lo riporta a Napoli centro. Ora è facile incontrarlo, di mattina, al Caffè del Duomo, prima che vada a scuola.


- La signora Nunzia racconta il Signore Antimo -

  Era il 1990 e si svolgevano i mondiali di calcio in Italia, e io ero innamorato degli azzurri. In quel periodo dormivo a casa di mia nonna...

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